Ripresa, se la Cina chiamasse Obama
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Ripresa, se la Cina chiamasse Obama

Ripresa, se la Cina chiamasse Obama

TRA G-20 E G-2
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di Martin Wolf
La riunione del Gruppo dei 20 tenutasi a Londra la scorsa settimana ha avviato l'economia mondiale sul cammino della ripresa sostenibile? La risposta è no. I disaccordi fondamentali su cosa sia andato storto e su come si possa risistemare la situazione non possono essere risolti da questo tipo di incontri. La conseguenza è che il mondo ha imboccato il sentiero della ripresa insostenibile. È pur sempre meglio di niente, ma non è ancora abbastanza.
Questo vertice ha raggiunto due obiettivi: uno più ampio e uno più specifico. Primo, come osservava Winston Churchill, «discutere è meglio che fare la guerra». Considerando l'intensità della rabbia e della paura che pervadono il mondo, la discussione in quanto tale non può che essere positiva. Secondo, il G-20 ha deciso di triplicare le risorse a disposizione del Fondo monetario internazionale fino a 750 miliardi di dollari e di stanziare altri 250 miliardi di diritti speciali di prelievo (Dsp), l'attività di riserva dell'Fmi. Se queste decisioni verranno attuate, potrebbero dare sollievo alle economie emergenti più duramente colpite dalla crisi. Tali decisioni segnano allo stesso tempo la riapertura di un eterno dibattito: il funzionamento del sistema monetario internazionale.
Questo farà sbadigliare innumerevoli lettori. La maggior parte delle persone preferisce credere che la spiegazione di questa crisi risieda solo ed esclusivamente nella deregolamentazione o malregolamentazione dei sistemi finanziari degli Stati Uniti, del Regno Unito e di qualche altro Paese. Tuttavia, considerando la portata degli squilibri macroeconomici mondiali, è piuttosto difficile pensare che standard di regolamentazione più elevati da soli sarebbero riusciti a salvare il mondo. Non siamo di fronte a una questione soltanto di interesse storico; essa riguarda anche la sostenibilità della ripresa. I deficit pubblici attualmente sono, in linea generale, molto più cospicui nei Paesi con un disavanzo corrente strutturale rispetto a quelli che hanno un avanzo corrente. Questo perché i Paesi con un avanzo corrente possono importare una parte considerevole degli incentivi immessi dai Paesi con un disavanzo corrente.
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L'Ocse prevede un balzo del debito pubblico statunitense pari a quasi il 40% del prodotto interno lordo nel corso di tre anni. È piuttosto probabile, quindi, che la prossima crisi venga innescata da quello che i mercati considerano un debito pubblico eccessivo in Paesi con forti disavanzi correnti strutturali, in particolare negli Stati Uniti. Se questo dovesse succedere, il sistema economico internazionale si troverebbe ad affrontare un momento critico.
È curioso notare che è Pechino a sollevare questi dubbi. Innegabilmente lo fa spinta da interessi personali: la Cina è infatti preoccupata per le sue riserve di valuta estera, la maggior parte delle quali denominate in dollari; vuole liberarsi da ogni responsabilità per la crisi; desidera preservare il più possibile il proprio modello di sviluppo; e immagino stia cercando di controbilanciare la pressione statunitense sul tasso di cambio del renminbi.
Wen Jiabao, il primo ministro cinese, ha sottolineato la preoccupazione del proprio Paese riguardo al valore delle sue vaste riserve: quasi 2mila miliardi di dollari, ovvero quasi la metà del Pil. Immaginate come reagirebbero gli americani se il loro Governo avesse investito intorno ai 7mila miliardi di dollari (la cifra corrispondente rapportata al Pil Usa) in passività di Governi non del tutto amichevoli. Pechino ha iniziato a capire di aver commesso un errore ma, ahimé, troppo tardi.
Nel frattempo Zhou Xiaochuan, Governatore della Banca centrale cinese, ha prodotto una serie considerevole di discorsi e documenti sul sistema finanziario globale, sugli squilibri mondiali e sulla riforma del sistema monetario internazionale. Essi rappresentano una dichiarazione del punto di vista cinese e allo stesso tempo un contributo al dibattito. Non bisogna essere necessariamente d'accordo con tutto quello che il Governatore dichiara, ma il semplice fatto che si esprima apertamente è di per sé significativo.
Zhou sostiene che l'elevato tasso di risparmio della Cina e di altri Paesi dell'Est asiatico sia una conseguenza di tradizione, cultura, struttura familiare, situazione demografica e attuale fase dello sviluppo economico. Aggiunge, inoltre, che questi «non possono essere adeguati semplicemente variando il tasso di cambio nominale». Insiste spiegando che «l'elevato tasso di risparmio e le ingenti riserve estere sono il risultato di reazioni difensive contro la speculazione predatoria», avvenute in particolare all'epoca della crisi finanziaria asiatica del 1997-98.
Nulla di tutto questo può essere cambiato repentinamente, insiste il Governatore: «Anche se gli Stati Uniti non possono sostenere uno schema di crescita basato su consumi elevati e risparmi ridotti, non è proprio questo il momento adatto per aumentare il loro tasso di risparmio». Il che significa: «Ci sta bene la parsimonia statunitense ma non ora». Nel frattempo, aggiunge il Governatore, il Governo cinese ha elaborato uno dei programmi di stimolo economico più imponenti al mondo.
Inoltre, il vasto accumulo di riserve di valuta estera, aumentate di 5.400 miliardi di dollari fra il 1999 e il picco del mese di luglio 2008, riflette la domanda di sicurezza delle economie emergenti. Poiché, tuttavia, il dollaro rimane la principale attività di riserva a livello globale, il mondo intero dipende dalle emissioni monetarie statunitensi. Inoltre, proprio per questa ragione gli Usa tendono a incorrere in disavanzi correnti. Il risultato è rappresentato dal riemergere di una debolezza discussa già negli anni nebulosi dei tassi di cambio fissi del sistema Bretton Woods, sistema crollato all'inizio degli anni 70: la sovraemissione della valuta chiave. La risposta a lungo termine, aggiunge Zhou, è una «valuta di riserva sovranazionale».
È fin troppo facile controbattere a numerosi dei suoi argomenti. Gran parte dello straordinario aumento del risparmio aggregato della Cina deriva dall'aumento degli utili aziendali. Indubbiamente si potrebbero tassare tali utili per spenderne poi una parte. Il Governo potrebbe altresì contrarre maggiori prestiti: il debito cinese, che l'Fmi stima pari al 3,6% del Pil, rimane decisamente modesto. È altrettanto difficile credere che un Paese come la Cina debba risparmiare metà di quanto produce o registrare avanzi correnti che si avvicinano al 10% del Pil.
Allo stesso modo, sebbene il sistema monetario internazionale sia chiaramente difettoso, difficilmente può essere ritenuto il solo responsabile del vasto accumulo mondiale di riserve di valuta estera. Un'altra ragione va ricercata nell'affidamento eccessivo su una crescita trainata dalle esportazioni. Nonostante ciò, Zhou ha ragione quando afferma che parte della soluzione a lungo termine della crisi è un sistema di creazione di riserve che permetta alle economie emergenti di incorrere in disavanzi correnti in sicurezza. L'emissione di Dsp è un modo per raggiungere tale obiettivo senza sconvolgere le fondamenta del sistema globale.
La Cina sta cercando di ottenere l'impegno degli Usa, e questo è già di per sé estremamente importante. Tuttavia, la condizione indispensabile per avviare una discussione seria su riforme globali è l'auto-ricerca di una propria motivazione. La Cina deve inoltre capire un elemento essenziale: il mondo non può assorbire senza difficoltà gli avanzi correnti che si prevede genererà stando all'attuale andamento dello sviluppo. Un Paese grande come la Cina non può sperare di fare affidamento su questi considerevoli avanzi correnti come fonte di domanda. La spesa interna deve continuare ad aumentare nettamente e in maniera sostenibile, proporzionalmente alla crescita del risultato potenziale. Niente di più facile, e più difficile, di questo.
Martin Wolf
martin.wolf@ft.com

10/04/2009
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