Rimpatriati 9 rifugiati nordcoreani in Cina

di Sonia Montrella
Roma, 24 feb.- Al via il rimpatrio dalla Cina di 9 rifugiati nordcoreani. Lo ha deciso il governo cinese, alleato di Pyongyang, nonostante le pressioni della comunità internazionale e della Corea del Sud. E proprio a quest'ultima, in particolare, la mossa di Pechino non è andata giù e, in tutta risposta, ha approvato una risoluzione che richiama la Cina a gestire l'emergenza dei rifugiati nordcoreani secondo le leggi internazionali. Lo riferisce l'agenzia France Presse secondo cui la risoluzione è passata al vaglio del comitato per gli Affari Esteri e per l'Unificazione.
Inutili dunque gli appelli dei giorni scorsi della metà 'fortunata' della penisola, dove centinaia di avvocati per i diritti umani, attivisti e manifestanti erano scesi in piazza nel tentativo di persuadere la Cina a offrire rifugio politico ai nordcoreani. "Una volta ricondotti in patria – avevano spiegato alcuni rifugiati a Seul – i fuggitivi verranno etichettati da Pyongyang come dei "traditori" e condannati alla reclusione nei campi di lavoro dove verranno sottoposti a punizioni corporali, lavoro forzato e violazione dei diritti umani".
Si era unito al coro anche il presidente Lee Myung-bak che, in un'intervista televisiva di tre giorni fa, si appellava appunto al rispetto delle leggi internazionali: "Visto che non sono dei criminali, ritengo che il governo cinese debba trattare queste persone secondo quanto previsto dal diritto internazionale". Il giorno prima si era pronunciato sul tema anche il ministero degli Esteri sudcoreano comunicando la sua intenzione di portare la questione fino a Ginevra, dove la prossima settimana si terrà un vertice del Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite.
Ma per Pechino, che nell'ultimo mese ha visto oltre 30 nordcoreani oltrepassare il confine, i fuggitivi sono a tutti gli effetti degli "immigrati illegali" che vanno catturati, detenuti e rimpatriati. Lo ha chiarito ancora una volta martedì scorso il ministero degli Esteri cinese sottolineando che i fuggitivi nordcoreani non possono essere considerati dei rifugiati in quanto entrano nel Paese illegalmente e per motivi economici. Secondo le stime, dalla metà degli anni 90, oltre 20mila nordcoreani si sono rifugiati nel sud della penisola per scappare dalla carestia che ha affamato il regime di Pyongyang. E la maggior parte di questi ha usato la Cina come ponte, aiutati da missionari cristiani, attivisti per i diritti umani o trafficanti.
Colloqui 'cinesi' per Pyongyang e Washington
Mentre la diatriba tra Cina e Corea del Sud non sembra destinata a spegnersi, a Pechino sono in corso da ieri i colloqui tra Washington e Pyongyang. In agenda: l'assistenza nutrizionale, la questione nucleare e la ripresa dei colloqui a sei, le ultime due interdipendenti l'una dall'altra. E "per il momento, qualche piccolo passo in avanti è stato compiuto" ha dichiarato Glyn T. Davies, ex ambasciatore statunitense presso l'International Atomic Energy Agency e ora negoziatore per l'America ai colloqui con la Corea del Nord.
Ma il meeting, definito dall'amministrazione Obama un "incontro esploratore", serve soprattutto agli Stati Uniti per comprendere se il nuovo leader nordcoreano Kim Jong-un - succeduto al padre Kim Jong-il scomparso a dicembre – è pronto ad accogliere le precondizioni necessarie per tornare al tavolo dei colloqui a sei, cui siedono Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia e le due Coree. Condizioni che coincidono quasi del tutto con la sospensione delle attività nucleari da parte di Pyongyang. I colloqui, avviati nel 2003, vanno avanti a singhiozzo per via di varie interruzioni - tra cui l'ultima che risale a più di due anni fa - a seguito di attività nucleari del regime di Kim Jong-il. Nel 2006, la Corea del Nord fu l'ottava nazione ad aver detonato un dispositivo nucleare, mentre nel 2009 annunciò al mondo che aveva condotto con successo un secondo test nucleare. Poi nel 2010 Siegfried S. Hacker, ex direttore del Los Alamos National Laboratories in visita nel Paese, fu condotto in un sito per l'arricchimento dell'uranio fino ad allora sconosciuto all'Occidente.
Il ruolo di Pechino
"Come principale benefattore della Corea del Nord, Pechino ha offerto sostegno finanziario e incrementato gli scambi commerciali con il Paese per prevenire un collasso che innescherebbe inevitabilmente un flusso migratorio verso la Cina" si legge sul New York Times. Dall'altro lato, sostengono gli esperti statunitensi, il Gigante asiatico ha, almeno in apparenza, cercato di raffreddare l'entusiasmo del suo alleato per i test nucleari. "Nei due anni precedenti alla sua morte, Kim Jong-il si è recato in Cina tre volte. E durante quelle visite – ha riferito una fonte cinese al New York Times - Pechino ha assicurato sostegno a Kim Jong-un come futuro leader di Pyongyang a patto che la Corea del Nord si fosse tenuta alla larga da azioni provocatorie, quali ad esempio una terza detonazione nucleare".
E il cambio di leadership non sembra aver indebolito l'influenza di Pechino sul regime: secondo Jonathan D. Pollack, esperto di questioni nordcoreane della Brookings Institution, "i cinesi tessono ottime relazioni con Jang Song Thaek, cognato di Kim Jong-un e consigliere dell'acerbo presidente". Tuttavia, secondo molti analisti, importanti interessi fanno sì che Pechino limiti le pressioni sul disarmo nucleare del Nord Corea, intimorita, soprattutto, da un'eventuale unificazione della penisola. Uno scenario che non solo produrrebbe un esodo verso la Cina, ma condurrebbe inoltre gli Stati Uniti fino al cortile di casa.
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