Dhaka (Bangladesh), 24 giu. - La Cina parla con Gheddafi, ma anche coi ribelli. Il curioso doppio gioco di Pechino ha sollevato perplessità anche in India, dove sin dai primi di giugno sono apparsi articoli con l'intenzione di rispondere ad un solo grande quesito: che cosa hanno in mente?
L'8 giugno il Times of India pubblica un breve pezzo di Sabal Dasgupta dal titolo molto eloquente: "Double Game? China hosts Libya envoy, meets rebels" . Dasgupta descrive la visita come "un'occasione per Pechino per contrastare l'influenza americana nell'area sul piano internazionale e migliorare la propria immagine di amico del mondo musulmano", sottolineando il doppio gioco cinese come un'abile mossa per migliorare i rapporti coi nuovi leader partoriti dalle rivolte del mediterraneo e per cercare di stabilizzare la regione – con l'aiuto russo – importante crocevia di forniture petrolifere mondiali.
I fatti risalgono a quasi un mese fa, quando Gheddafi sembrava ormai destinato a seguire l'esempio di Mubarak per l'Egitto: ipotesi che oggi sappiamo non essersi – ancora? - verificata. Molto più interessante è invece il pezzo pubblicato sulla versione online di Tehelka il 18 giugno, firmato dall'ex segretario al ministero degli Esteri indiano RS Kalha.
Sganciandosi dall'attualità, RS Kalha descrive efficacemente il dilemma che la politica estera cinese ha dovuto affrontare subito a ridosso delle insurrezioni del mediterraneo: da un lato, l'impossibilità di appoggiare apertamente dei movimenti di massa pro-democrazia; dall'altro, l'obbligo di evitare di ritrovarsi "dalla parte sbagliata" del cambiamento, mostrandosi all'opinione pubblica mondiale come una dittatura che appoggia altre dittature, nonostante – come ricorda esplicitamente RS Kalha nel pezzo – la Cina ad oggi sia l'unico paese non democratico, pur con l'anomalia russa, a sedere al Consiglio di Sicurezza dell'Onu (un seggio che l'India da anni sta cercando di conquistarsi).
E gli interessi cinesi in Libia non sono da sottovalutare: 35000 cinesi impiegati in Libia per progetti di ingegneria civile, 7 miliardi di dollari annui di commercio bilaterale sino-libico, 3% del petrolio importato in Cina proviene da Tripoli.
Non volendo accodarsi alla NATO ed astenendosi al voto della risoluzione Onu che ha dato il via libera all'intervento occidentale in Libia, RS Kalha sostiene che la Cina volesse evitare di sbilanciarsi proprio in Africa, dove gli interessi della Repubblica popolare sono enormi e in continuo aumento: "[...] cosa avrebbero pensato gli altri paesi africani? Che la Cina, come altri paesi occidentali, fosse interessata solamente allo sfruttamento delle risorse africane? Che fosse una collaborazionista dell'Occidente?".
La Cina voleva prendere tempo, capire quale sarebbe stato il prossimo interlocutore libico col quale fare affari. Così, temendo che la rivolta dei gelsomini potesse arrivare anche oltre la Grande Muraglia, si è fatta promotrice dell'appello per il cessate il fuoco in Libia, spingendo per una risoluzione politica del conflitto. Ma la campagna libica, da sperata guerra lampo, si sarebbe presto rivelata più complessa del previsto. Pechino è stata costretta ad una sterzata, abbandonando la politica dell'immobilismo attendista per un doppiogiochismo attivo: se non so ancora con chi devo parlare, parlo con entrambi.
RS Kalsha non manca di notare il consueto equilibrismo retorico che caratterizza il Ministero degli Esteri cinese: "Ora la Cina aveva sostenuto che 'Il futuro della Libia dovrebbe essere deciso dal popolo libico stesso e la Cina rispetta la volontà del popolo libico'. Come questa scelta doveva essere esercitata, non è stato per nulla chiarito".
Le lucide conclusioni dell'articolo si concentrano infine sulle preoccupazioni cinesi di come gestire l'ondata della Primavera Araba e le richieste di elezioni democratiche nel mediterraneo, istanze che anche in Cina – secondo l'ex segretario degli esteri indiano – potrebbero causare "convulsioni politiche". Agli occhi di RS Khalsa "le continue volte e giravolte della politica cinese rispetto alla Libia di Gheddafi sono il sintomo della sua esitazione ed indecisione", un punto di vista che l'India condivide con molti altri osservatori mondiali.
di Matteo Miavaldi
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