RIARMO TAIWAN, NESSUN COLPO DI CODA

Pechino, 30 set. - Le relazioni tra Stati Uniti e Cina scaldano da sempre gli animi delle rispettive opinioni pubbliche. Questa emotività rischia spesso di esasperare l'interpretazione degli eventi che caratterizzano l'evoluzione di questo delicato rapporto: ogni intesa diventa un idillio, e ogni diverbio un conflitto aperto. Il recente annuncio di Washington sulla vendita di armi a Taiwan - considerata da Pechino una provincia 'ribelle' - non si è purtroppo sottratto a questo destino.
Ma non c'è nulla di nuovo nelle decisioni di Washington. Gli Stati Uniti forniscono armi 'difensive' a Taiwan da anni senza che ciò crei alcun serio conflitto con Pechino. Tutto è cominciato nel 1979 con l'amministrazione Carter: Washington riusci allora a persuadere la leadership comunista di Pechino ad accettare un compromesso che prevedeva il riconoscimento diplomatico da parte di Washington in cambio della continuazione della vendita di armi difensive a Taiwan.
A quel tempo, infatti, il regime comunista di Pechino era particolarmente propenso a raggiungere un compromesso con gli Stati Uniti su Taiwan. Deng Xiaoping stava cercando di impadronirsi delle redini del partito per poter lanciare il suo noto programma di riforme economiche. Per consolidare il suo prestigio Deng aveva bisogno di accumulare successi in politica estera e garantire al contempo al paese la sicurezza necessaria per realizzare la modernizzazione dell'economia. Il rapporto con Washington era un fattore cruciale nei piani del leader cinese: da un lato forniva protezione nei confronti dei sovietici e dall'altro garantiva la disponibilità di know-how e capitali utili per la modernizzazione dell'economia. La Cina, secondo Deng, aveva un immediato bisogno di riforme, e le riforme avevano bisogno degli USA. Taiwan poteva attendere.
Il consigliere per la sicurezza di Carter, Zbigniew Brzezinski, capì che la disponibilità cinese a raggiungere un compromesso con Washington ridimensionava il peso diplomatico del problema di Taiwan. Restava tuttavia il peso 'politico': la difesa di Taiwan contro i comunisti cinesi aveva, infatti, un forte richiamo simbolico per l'opinione pubblica americana. Bisognava impostare dunque un accordo con Pechino che non suggerisse all'opinione pubblica l'idea che Washington stesse abbandonando il vecchio alleato alle grinfie dei comunisti cinesi.
Brzezisnki risolse abilmente il problema. Nel 1979 Washington spostava la sua ambasciata da Taipei a Pechino, riconoscendo il governo della Repubblica popolare come il governo legittimo della Cina, ma riusciva al contempo a sfruttare la disponibilità cinese al compromesso riservandosi la possibilità di continuare a vendere armi difensive a Taiwan.
Era solo il primo passo per attutire l'impatto che il divorzio con Taipei avrebbe creato nell'opinione pubblica americana. Il passo immediatamente successivo fu la visita di Deng negli Stati Uniti, celebrazione teatrale del nuovo idillio tra Washington e Pechino. "Deng ha deciso di aiutarci a vendere la normalizzazione al popolo americano" scriveva alla vigilia della visita il Segretario di Stato Cyrus Vance al presidente Carter, " e ciò influenzerà notevolmente la sua condotta qui". Per ottenere l'appoggio americano Deng doveva aiutare l'amministrazione a 'vendere' la normalizzazione con Pechino all'opinione pubblica americana. Per farlo doveva mostrarsi come il simbolo di una Cina 'nuova', un leader post-comunista col cappello da cowboy, un riformista con promettenti inclinazioni democratiche, un pragmatico desideroso di aprire milioni di case cinesi ai prodotti e alle idee dell'America.
I cinesi ottennero ciò di cui avevano bisogno. Il rapporto con Washington rafforzò la sicurezza del paese, consolidò la leadership di Deng nel Partito, e pose le basi per il successo del suo programma di riforme. Gli Stati Uniti, da parte loro, ottennero un successo formidabile: grazie ad una formula politicamente compatibile con la sensibilità dell'opinione pubblica americana riuscirono a stabilire un rapporto strategico con Pechino che sovvertì gli equilibri della Guerra Fredda a scapito di Mosca; allo stesso tempo, attraverso la cooperazione economica con la Cina denghista, Washington divenne il principale promotore di quella riforma economica che di li a poco avrebbe cambiato il mondo.
La fine della Guerra Fredda e l'ascesa di Pechino nel sistema internazionale non hanno mutato l'essenza strategica dei rapporti tra i due paesi, anzi, come lo stesso presidente Obama ha piú volte dichiarato, ne hanno accentuato l'intensità.
Ma con l'intensità aumentano anche le complicazioni. Il tema della vendita delle armi a Taiwan resta ancora oggi un nervo sensibile soprattutto per l'opinione pubblica cinese, come dimostrano le recenti reazioni al pacchetto da 5,8 miliardi concesso nei giorni scorsi da Washington a Taipei. Il Generale Luo Yuan, vice-Segretario Generale della Società di Scienza Militare, in un editoriale riportato sulla versione online del Quotidiano del Popolo ha tuonato vendetta contro gli Stati Uniti. E come lui altri commentatori, più o meno noti, hanno lanciato strali contro Washington.
A ben guardare, tuttavia, la tempesta infuria nel solito bicchiere.
"E' indubbio che la vendita di armi avrà un impatto negativo sull'opinione pubblica cinese", ha dichiarato al NYT Shi Yinghong, direttore del Centro Studi sull'America della Renmin University, "ma alla fine non avrà alcuna ripercussione sul rapporto tra Pechino e Washington". "E un copione già scritto" aggiunge Liu Yiwei, il Direttore del China Program del Carter Center, "e ognuno gioca la sua parte".
In effetti c'è poco o nulla di sorprendente nella decisione di Washington. Se ne parlava già da tempo come reazione al crescere dell'ipotetica minaccia militare cinese contro Taiwan. La mossa era stata peraltro anticipata già nel mese di luglio: serviva al Segretario di Stato Hillary Clinton per sbloccare il voto del senatore Cornyn - eletto in Texas dove risiedono molte della fabbriche di armi coinvolte nel pacchetto concesso a Taipei - in favore della nomina di William Burns come vice-Segretario di Stato. Si indicava proprio la fine di settembre come periodo ideale per l'annuncio in quanto 'finestra' tra la visita in Cina del vice-presidente Biden a metà agosto e il meeting dell'APEC alle Hawaii di metà novembre.
A sorprendere, più della forma, è invece la sostanza della decisione di Washington. Rispondendo ad una domanda di un giornalista nel corso di una conferenza stampa tenutasi in maggio negli Stati Uniti, il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito cinese il generale Chen Bingde, ha ammesso che un'eventuale vendita di armi a Taiwan avrebbe certamente avuto un qualche impatto sulle relazioni ufficiali e militari sino-americane, impatto la cui entità tuttavia sarebbe dipesa dalla 'sostanza' delle armi vendute. La decisione americana di limitare il pacchetto di aiuti ad un semplice rimodernamento della vecchia flotta aerea – anziché inserirvi la vendita dei nuovi e sofisticati F-16 C/D – sembra dunque seguire questa logica; una logica, come si è detto, modellata da ragioni sia politiche che diplomatiche.
La retorica della politica interna chiede, specie alla vigilia della campagna elettorale per le presidenziali, che l'impegno 'morale' di Washington alla difesa della democrazia taiwanese contro i 'dittatori' cinesi sia tutelato - gli impegni giuridici peraltro non trovano fondamento neppure nel tanto citato Taiwan Relations Act del 1979 che di fatto impegna gli Stati Uniti solo a mantenere 'la capacità' di resistere alle eventuali minacce contro la sicurezza di Taiwan e niente altro - mentre la realpolitik diplomatica si occupa di adattare la sostanza della vendita delle armi agli interessi strategici che di certo non prevedono, almeno sul breve termine, un conflitto con Pechino su Taiwan.
Sia cinesi che americani sembrano infatti puntare al mantenimento della stabilità lungo lo Stretto anche in vista delle elezioni presidenziali e legislative che si terranno all'inizio del 2012 a Taiwan. Pechino ovviamente aspira alla rielezione di Ma Ying-jeou, il leader del Kuomindang che ha promosso in questi ultimi anni un riavvicinamento tra le due sponde. E anche Washington sembra seguire la stessa strada, temendo che le posizioni 'antagoniste' del Partito Democratico - come quelle sull'esistenza di 'una sola Cina' stabilite nel 1992 - possano mettere a rischio la stabilità nell'area.
I venti di guerra nello Stretto sono dunque spesso solo polveroni mediatici che celano uno scenario, per quanto complesso e delicato, di interessi intrecciati e spesso condivisi tra le due potenze. I toni stizziti degli editoriali cinesi dunque non rivelano una svolta aggressiva della politica cinese. Pechino attua da anni una politica pacifica e di dialogo nei confronti di Taiwan con l'obiettivo, sul breve termine, di rafforzare i collegamenti tra le due sponde in modo da favorire, sul lungo termine, la sua riunificazione pacifica con la madrepatria. Ciò che questi toni rivelano è semmai l'emergere di una società meno monolitica riflessa da un sistema di media più variegato in cui trovano spazio quelle voci meno moderate – e più libere dal controllo del governo centrale come nel caso dei militari – che nei momenti di tensione meglio riflettono le frustrazioni del popolo.
Come disse a Deng il delegato americano a Pechino, Leonard F. Woodcock, poche ore prima della normalizzazione: "il problema è il clima politico, ma col tempo vedrete che riusciremo a risolverlo". Sono passati trent'anni e il tema di Taiwan conserva ancora la sua carica emotiva. Tuttavia, oggi piú di ieri i rapporti tra Washington e Pechino regolano le sorti del mondo. E' dunque più saggio riscoprire il senso delle parole di Woodcock e non consentire all'emotività del dibattito politico di influenzare le logiche della diplomazia. Il rischio sarebbe troppo grande, e oggi né Pechino né Washington possono permettersi di affrontarlo.
di Enrico Fardella
Research Fellow, S&T Fellowship Program China, UE, Peking University
© Riproduzione riservata