QUANDO TIAN'ANMEN DIVENTA WIN FOR LIFE DELLA LETTERATURA
di Francesco Palmieri
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Roma, 09 dic. - Vige, o più precisamente incombe un ‘bonus Tian'anmen' sulla narrativa e sulle espressioni artistiche cinesi ricevute in Occidente nell'ultimo quarto di secolo. Consiste nel pregiudizio favorevole da cui il pubblico, la critica, gli addetti ai lavori sono condizionati allorché nel romanzo, nell'allestimento o sulla tela si citi la repressione del 4 giugno 1989, ciò che la precedette o che ne conseguì. Più o meno consapevolmente, sembra poco corretto mal giudicare un'opera poco felice ma su cui sventola il vessillo della sofferenza, e quando proprio non si può dire buona la si archivia come “testimonianza”. Si teme che l'opinione negativa appaia un atto di simpatia verso il governo cinese. Strano è che fra tante piaggerie queste siano le sole o le più autocensurate, ma meno bizzarro appare se si considera il valore economico del mercato culturale rispetto a settori con molti più zero in cifra.
Si aggiunge all'ipocrisia il paradosso che le opere di maggior pregio letterario, vedi per tutte la produzione poetica di Liu Xiaobo, trovino meno lettori rispetto al profluvio di testi mediocri o pessimi, perlopiù frutto di autori che a differenza del predetto le sofferenze della dissidenza le hanno assunte per sentito dire, o ne attingono da televisione e giornali. Caso tipico, ultimo in ordine di tempo ma che ultimo - è da giurarci - non resterà, quello di Xiaolu Guo con il romanzo La Cina sono io (p.393, Metropoli d'Asia, 15 euro), appena tradotto dall'I am China inglese, lingua in cui l'autrice, residente e accasata in Gran Bretagna, ha deciso di scrivere (particolare che non esime dal peccato di blasfemia chi richiama alla memoria un Conrad).
La trama scorre lenta ma non, come il Tamigi, lieve, perché il suo corso vagola per esasperanti cambi di prospettiva spaziotemporale. Al centro è l'infelice storia d'amore fra due giovani cinesi attraverso lo sguardo di una traduttrice scozzese residente a Londra, la quale ricostruisce la vicenda pezzo a pezzo sulle lettere e gli stralci di diario consegnatile da un editore, finché lei stessa entra nel romance dei protagonisti. Se Xiaolu Guo ci fosse riuscita, sarebbe un ingegnoso giuoco di specchi, ma la struttura del romanzo richiedeva mezzi espressivi di cui proprio non pare munita. Iona la traduttrice, donna che in tempi più semplici si sarebbe definita ninfomane e di cui adesso possiamo riferire solo che è alla ricerca di sesso compulsivo (naturalmente anche con l'editore), accompagna l'affaticato lettore nella storia dei cinesi con flashback autobiografici scialbi per scrittura e di montaggio traballante.
Per chi voglia comunque assaporare la lettura, non riveliamo l'identità segreta del coprotagonista Kublai Jian ramingo per il mondo, di cui si può anticipare che è un musicista punk della generazione pechinese che ha “vissuto” Tian'anmen, uno di quelli che hanno preso dall'Occidente la trasgressione di gerghi e apparenze, come quei provinciali che da noi vestono la patina dell'America facendo il giro del paese per impressionare i vecchi. Solo che in Cina, al posto dei vecchi, c'è il Partito. Che ti fa esprimere fino a un certo punto ma poi dice, nel modo conosciuto, adesso basta. La censura colpisce Jian quando distribuisce un manifesto in cui afferma che “l'artista deve occuparsi di politica. Perché l'arte è sempre una questione politica” (chi è vissuto negli anni Settanta ricorderà quel che sortì da questo tristo ritornello).
Se una generazione prima, nello stupendo libro di Dai Sijie, il tesoro era una cassa con i libri di Balzac, negli anni Novanta sono brani punk già passati di moda. E se la scrittura di Dai Sijie aveva una voce, quella di Xiaolu Guo (complice la traduzione?) è un falsetto spezzato. C'è la “cruda luce fluorescente dei centri direzionali” a Londra, lo sguardo di lui che sul seno di lei ovviamente “indugia” mentre il sorriso è “enigmatico”; c'è la stanza che “è ancora piena del suono dei loro respiri”; una vecchia prostituta francese che però “un tempo dev'essere stata giovane” (e sì!); ci sono animali disneyanamente inverosimili, da “un paio di scoiattoli nervosi” (ma da cosa si nota?) ai “gabbiani spudorati”. Per non parlare delle Montagne Rocciose che “viste da vicino sembrano distratte e indifferenti”, di un cursore del pc che “lampeggia impaziente” e di un elicottero che “passa, sulle loro teste, disturbando la quiete con il suo ronzio terrorizzato”.
Si potrebbe continuare, ma perché. E' abbastanza per auspicare che Xiaolu Guo riprovi a scrivere in cinese. E che Tian'anmen, come ogni altra sciagura del mondo, non costituisca un win for life per artisti. Nessuna pena collettiva o individuale basta di per se stessa a farti scrittore, scultore o musicista. Ci vuole qualcos'altro. E di libri brutti l'autoctona abbondanza rende superflua l'importazione.
09 dicembre 2014
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