Protezionismo? Vinto dal welfare
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Protezionismo? Vinto dal welfare

Protezionismo? Vinto dal welfare

MERCATI GLOBALI - POLITICHE ECONOMICHE
di lettura
di Dani Rodrik

HARVARD UNIVERSITY
C'è un cane che non ha abbaiato durante la crisi finanziaria: il protezionismo. Nonostante tutti gli allarmi lanciati, la realtà è che i governi hanno eretto pochissime barriere alle importazioni. L'economia mondiale rimane aperta com'era prima della crisi. Il protezionismo di solito prospera in tempi bui. Quando deve fronteggiare una situazione di declino economico e aumento della disoccupazione, è più probabile che un governo presti maggiore attenzione ai gruppi di pressione interni che al rispetto degli obblighi internazionali.
Come John Maynard Keynes ammetteva, le restrizioni commerciali possono difendere o generare occupazione durante le recessioni economiche. Ma quello che può essere auspicabile in condizioni estreme per un solo paese può essere largamente nocivo per l'economia mondiale. Quando tutti alzano barriere commerciali, il volume degli scambi crolla. Nessuno vince. Ecco perché la disastrosa politica dell'ognuno per sé e Dio per tutti applicata durante gli anni 30 aggravò pesantemente la Grande depressione.
Molti si lamentano che qualcosa del genere, anche se di portata meno ampia, sta avvenendo oggi. In prima fila, a lanciare l'allarme su quello che definisce "il mostro protezionista" è un'organizzazione chiamata Global Trade Alert (Gta). L'ultimo rapporto della Gta segnala ben 192 distinte misure protezionistiche introdotte in tutto il mondo a partire dal novembre 2008, con la Cina come bersaglio più comune.
Questa statistica è stata largamente ripresa dalla stampa finanziaria. Di per sé, sembra segnalare che i governi non hanno tenuto fede ai loro impegni nei confronti dell'Organizzazione mondiale del commercio e del regime multilaterale degli scambi.
Ma se si va a guardare i numeri più da vicino, si scopre che non ci sono grandi ragioni per allarmarsi. In realtà solo pochi di quei 192 provvedimenti rappresentano qualcosa di più di una seccatura. La maggior parte sono conseguenze indirette (e spesso non volute) dei piani di salvataggio messi in piedi dai governi a seguito della crisi. Il settore maggiormente interessato è la finanza.
E non sappiamo nemmeno se queste cifre siano eccezionalmente alte rispetto alle tendenze precedenti alla crisi. Il rapporto della Gta ci dice quanti provvedimenti sono stati varati dal novembre del 2008, ma non ci dice quanti erano prima di quella data. In assenza di un parametro per effettuare una valutazione comparativa, non siamo realmente in grado di sapere se 192 provvedimenti "protezionistici" rappresentino una cifra grande o piccola.
E i dazi recentemente imposti dagli Stati Uniti sugli pneumatici cinesi? La decisione del presidente Barack Obama d'introdurre dazi esorbitanti (fissati al 35% nel primo anno) in risposta a un pronunciamento (sollecitato dai sindacati americani) della Commissione commercio internazionale ha ricevuto forti critiche da parte di chi paventa che possa dare il via a un'ondata di protezionismo.
Ma anche questo caso è meno grave di quello che sembra. Il dazio introdotto è perfettamente coerente con un accordo speciale negoziato all'epoca dell'ingresso della Cina nella Wto, che consente agli Stati Uniti d'imporre protezioni temporanee quando le importazioni cinesi provocano "scompensi" sui loro mercati interni. I dazi applicati da Obama sono molto più bassi di quelli raccomandati dalla commissione parlamentare. E in ogni caso è una misura che interessa meno dello 0,3% delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti.
La realtà è che il regime degli scambi internazionali ha superato brillantemente il suo test più impegnativo dai tempi della Grande depressione. Gli studiosi di economia internazionale che si lamentano per episodi marginali di protezionismo fanno pensare a un bambino che piange per un giocattolo rotto dopo un terremoto che ha ucciso migliaia di persone.
Tre sono gli elementi che spiegano questa straordinaria resistenza: le idee, la politica e le istituzioni.
Gli economisti sono riusciti alla perfezione a trasmettere il loro messaggio ai politici (anche se la gente comune continua a guardare con grande diffidenza alle importazioni). La miglior prova di ciò è il fatto che "protezionismo" e "protezionisti" sono diventati termini denigratori. Dopo tutto, generalmente ci si aspetta che i governi forniscano protezione ai loro cittadini. Ma se uno dice di essere a favore della protezione dalle importazioni finisce nel girone infernale dei Reed Smoot e Willis Hawley, gli autori della tristemente nota legge sui dazi doganali del 1930.
Le idee degli economisti, però, avrebbero fatto poca strada, se nel frattempo non fosse cambiata, in senso favorevole agli scambi, la configurazione di fondo degli interessi politici. Per ogni lavoratore e azienda che subisce gli effetti negativi della concorrenza dei prodotti d'importazione, ci sono uno o più lavoratori e aziende che possono attendersi di raccogliere i benefici dell'accesso ai mercati esteri.
E quest'ultima categoria, spesso rappresentata da grandi aziende multinazionali, è diventata progressivamente sempre più potente e rivendicativa. Nel suo ultimo libro, Paul Blustein racconta di un ex ministro del Commercio indiano che una volta chiese al suo collega statunitense di portargli la foto di un contadino americano. «Non ne ho mai visto uno - celiò il ministro - Ho visto solo grandi conglomerati industriali travestiti da contadini».
Ma la relativa docilità del grosso dei lavoratori sulle problematiche del commercio internazionale va attribuita, in ultima analisi, a qualcosa di completamente diverso: le reti di sicurezza messe in piedi dai sistemi di welfare. Le moderne società industriali ormai offrono un vasto campionario di protezioni sociali - sussidi di disoccupazione, programmi di reinserimento e altri strumenti d'intervento sul mercato del lavoro, oltre alle cure sanitarie e al sostegno della famiglia - che affievoliscono la domanda di forme di protezione più grossolane.
Lo stato sociale è l'altra faccia dell'economia aperta. Se il mondo non è precipitato nel baratro del protezionismo durante la crisi, come successe negli anni 30, gran parte del merito va attribuito a quei programmi sociali che la destra e i fondamentalisti del mercato vorrebbero mandare in pensione.
La battaglia contro il protezionismo è stata vinta, per il momento. Ma prima di abbassare la guardia ricordiamoci che non abbiamo ancora affrontato la sfida centrale con cui l'economia mondiale dovrà fare i conti mano a mano che la crisi si affievolirà: lo scontro inevitabile fra la necessità della Cina di produrre una quantità sempre più alta di prodotti lavorati e la necessità dell'America di ridurre il deficit della bilancia corrente. Sfortunatamente, ci sono pochi segnali che inducono a pensare che le autorità siano pronte ad affrontare questa minaccia concreta.
Copyright: Project Syndicate, 2009
(Traduzione di Gaia Seller)

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Beggar-my-neighbour. Le politiche di "beggar-my-neighbour" (rendo più povero il mio vicino) sono essenzialmente politiche protezionistiche. Per esempio, in caso di recessione, un governo può essere tentato di introdurre dazi, per ostacolare l'import e conservare posti di lavoro all'interno del paese. Oppure (protezionismo valutario) un governo può essere tentato di svalutare la moneta, per guadagnare quote di mercato a spese degli altri paesi concorrenti. La scienza economica ha dimostrato che le politiche di "beggar-my-neighbour" finiscono col fare tutti più poveri.

15/10/2009
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