Pechino, 13 lug.- Doris Phua è in lacrime, a tratti sembra vacillare, cerca con lo sguardo il sostegno dei fornitori giunti dall'Italia a darle manforte, ma continua a difendere il suo marchio: momenti di tensione nel pomeriggio di oggi alla conferenza stampa convocata a Pechino da Da Vinci Furniture Ltd., il retailer degli arredamenti di lusso accusato da un'inchiesta della tv di stato CCTV di vendere ai ricchi cinesi finti mobili Made in Italy prodotti in serie in Cina.
"La collaborazione con i produttori italiani dura da anni - ha detto Doris Phua, CEO di Da Vinci –, non abbiamo mai, e ripeto mai, copiato i mobili che venivano dall'Italia affidandone la produzione ad aziende cinesi".
Secondo la ricostruzione di CCTV, mobili di lusso come i divani della Cappelletti di Cantù – prodotti che i cinesi amanti del lusso acquistavano a più di 30 mila euro - sarebbero stati in realtà prodotti dalla Changfeng, un'azienda del Guangdong, nel sud della Cina. Per la trasformazione da "Made in Guangdong" a "Made in Italy" bastava inviare i pezzi d'arredamento in Italia, effettuare un veloce passaggio in dogana, e rispedirli a Shanghai, da dove venivano venduti a un prezzo dieci volte superiore al valore effettivo.
"Abbiamo collaborato con Changfeng nel 2002 e nel 2005, dopo la collaborazione si è interrotta per oltre due anni- ha raccontato Doris Phua ai reporter -,in queste occasioni abbiamo acquistato da Changfeng prodotti destinati non a Da Vinci, ma a un brand diverso. Un ulteriore contatto c'è stato solo lo scorso anno, quando ho presentato Changfeng ai vertici di Hollywood Homes, una società statunitense che si rivolge a un target medio e che voleva delocalizzare la sua produzione. Ritengo che Hollywood Homes abbia effettivamente piazzato delle ordinazioni presso Chanfeng, ma escludo categoricamente che lo abbia fatto qualsiasi firma italiana che rappresentiamo come Da Vinci".
A fianco di Doris Phua in lacrime ci sono una decina di produttori volati direttamente dall'Italia per manifestare il loro sostegno a Da Vinci. Si mostrano tutti increduli. "Rappresento una quindicina di brand che costituiscono l'eccellenza del classico italiano e lavoro con Da Vinci dal 2005- racconta ad AgiChina24 Enzo Asnaghi di Arte Consultants- e l'inchiesta della CCTV è un vero fulmine a ciel sereno".
Secondo Asnaghi, la truffa descritta dalla tv cinese è impossibile da realizzarsi: "Visto il turnover di un'azienda come Cappelletti, per citare una di quelle in prima linea, realizzare la frode significherebbe riuscire a superare i controlli della Guardia di Finanza con un container alla settimana, per una decina di anni. Controlli che sono molto penetranti, e che bloccano prodotti con resine non autorizzate dalla Ue come i falsi divani realizzati nel Guangdong".
Alcune aziende, tuttavia, potrebbero avere interesse a "spezzettare" la produzione, realizzandone parte in Cina, un po' come avviene in determinati comparti dell'abbigliamento. Ma secondo Giacomo Colombo della Colombo Mobili, società come la sua non traggono alcun vantaggio da processi di delocalizzazione "parziale": "E' vero che la Cina è famosa per le copie, ma noi abbiamo bisogno di tutta una serie di aziende che forniscono know-how ai componenti dei nostri mobili –spiega Colombo- e per ora si tratta di conoscenze presenti solo in certi distretti industriali italiani".
Molti dei produttori italiani presenti alla conferenza stampa sottolineano come Da Vinci fosse vicina alla quotazione in Borsa, prevista per la fine del 2011 dopo una procedura lunga tre anni. "Siamo sicuri che qualcuno voglia impedire questa IPO presso la Borsa di Shenzhen- dice Asnaghi – e soprattutto non possiamo accettare che il Made in Italy possa essere spacciato per Made in China. Sarebbe un danno da milioni e milioni di euro per moltissime aziende italiane che stavano diventando sempre più forti sul mercato cinese".
di Antonio Talia
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Nella foto Doris Phua, Ceo di Da Vinci, in lacrime durante la conferenza stampa svoltasi a Pechino il 13 luglio 2011
Pechino, 11 lug.- Non è uno dei tanti titoli nati per imitare il bestseller di Dan Brown. Quella scoppiata ieri in Cina - che la stampa locale ha già battezzato "Il caso Da Vinci"- è un'intricata storia di contraffazioni, pressioni mediatiche e operazioni finanziarie che va a colpire un settore vitale del Made in Italy: l'industria del lusso. E non è neanche un'ordinaria vicenda di violazione della proprietà intellettuale: le aziende italiane, infatti, in queste ore si stanno stringendo intorno al presunto colpevole per garantirne la buonafede e promettono battaglie legali.
Che cosa è successo? La tv di stato cinese ha trasmesso ieri un lungo reportage nel quale si accusa Da Vinci – il più importante retailer degli arredi di lusso - di impiegare aziende locali per copiare i prodotti italiani, rivendendoli poi alle classi ricche del Dragone sotto una finta etichetta Made in Italy.
Il servizio televisivo della CCTV parte dal racconto di una testimone, la signora Tang, che circa sei mesi fa ordinò circa 40 pezzi d'arredamento per un valore di 2.8 milioni di yuan (più di 300 mila euro). Tuttavia, racconta Tang, alcuni dei mobili "emanavano un odore tremendo", "non erano della giusta misura" e, soprattutto, "sospettavo non fossero affatto italiani".
I reporter investigativi di CCTV sembrano aver trovato la pistola fumante di tutta la vicenda falso divano da 300 mila yuan (più di 30 mila euro): non solo il sofà attribuito alla celebre Cappelletti di Cantù sarebbe stato realizzato nel Guangdong da una misconosciuta ditta di nome Changfeng, ma per realizzare il loro finto divano italiano gli artigiani cinesi avrebbero impiegato materiali di scarto anziché puro legno.
Ad ammetterlo davanti alle telecamere della troupe è lo stesso general manager della ditta del Guangdong, Peng Jie, che mostra ai giornalisti tanto le ricevute che le comunicazioni con le quali il management della Da Vinci chiede di "non impiegare legno appena sia possibile". Il risultato: il divano di lusso da più di 30mila euro è una copia che non ne vale neanche 3mila.
Al sofà "Made in Guangdong" basterebbe una spedizione dal porto di Shenzhen verso le coste italiane per trasformarsi magicamente - dopo un opportuno passaggio doganale - in un sofà tutto tricolore, da rispedire al porto di Shanghai e rivendere a un prezzo dieci volte superiore al valore reale.Tutto finito? Falsari scoperti? Nient'affatto, perché mentre Da Vinci rigetta ogni accusa e sostiene che spiegherà l'accaduto mercoledì prossimo in una conferenza stampa, i produttori italiani che da anni lavorano con il colosso del lusso cinese lo difendono a spada tratta.
È il caso ad esempio di Tino Cappelletti, il padrone dell'azienda colpita dal falso della Changfeng, che racconta ad AgiChina24 che volerà dall'Italia a Pechino per partecipare alla conferenza stampa organizzata da Da Vinci: "Riteniamo che la Da Vinci sia vittima di questa storia - spiega Cappelletti - e siamo pronti a intentare una causa contro la ditta cinese che realizza i prodotti copiati dal mio catalogo, che nulla ha a che vedere con la Da Vinci".
Cappelletti è un fiume in piena: "Da Vinci è nostro cliente dal 1994 ed è il più importante che abbiamo al mondo. Nelle nostre stesse condizioni si trovano almeno 50 aziende italiane, e so che tutte si stanno organizzando per volare a Pechino in occasione della conferenza, perché sono molto allarmati da questo caso, che potrebbe danneggiare notevolmente il loro business. Lo ribadisco: ho un rapporto personale di amicizia con i creatori del gruppo Da Vinci, e non posso assolutamente avere il minimo dubbio sulla loro buona condotta".
Per Antonio Laspina, direttore della sede di Pechino dell'Istituto per il Commercio Estero, un'operazione giocata sulla dogana per trasformare un divano "Made in China" in "Made in Italy" è teoricamente possibile: "Sono pratiche illegali, ma possibili, con le quali le aziende cinesi hanno capito che inviando un prodotto in Italia e rispedendolo in Cina, riescono a etichettarlo come realizzato in Italia attraverso una mera operazione doganale, o tramite il passaggio in un magazzino. Pratiche di questo genere sono in aumento, ma non abbiamo alcun elemento per affermare che questo sia il caso di Da Vinci".
Cappelletti ne è convinto: DaVinci è stato incastrato. Le ragioni? "Si tratta solo di ipotesi - spiega l'industriale brianzolo -, ma alla fine del 2011 è prevista la quotazione in borsa della società, un'operazione che ha richiesto immensi sforzi per oltre due anni. Può darsi che questa quotazione abbia scatenato una lotta economica o finanziaria, e i concorrenti di Da Vinci abbiano deciso di utilizzare anche i metodi sleali".
Il "Caso Da Vinci" ha quasi tanti colpi di scena quanto il romanzo di Dan Brown, E quelli della vicenda cinese sembrano anche molto più plausibili.
di Antonio Talia©Riproduzione riservata