PECHINO OGGI NON E' LA TOKYO DEGLI ANNI '90

PECHINO OGGI NON E'  LA TOKYO DEGLI ANNI '90

Pechino, 18 apr.- La Cina degli anni '10 corre gli stessi rischi che paralizzarono l'economia giapponese all'inizio degli anni '90? Il paragone non è nuovo, ma una sezione del rapporto World Economic Outlook pubblicato lunedì scorso dal Fondo Monetario Internazionale rilancia la questione.

 

Secondo gli economisti Joshua Felman e Daniel Leigh, autori di questo capitolo del dossier, esistono almeno tre fattori che possono evitare a Pechino un "decennio perduto" come quello che attraversò Tokyo a partire dal gennaio 1990. Ma per comprendere esattamente i pericoli che la leadership cinese deve affrontare oggi è necessario tornare indietro fino al settembre 1985 e spostarsi dal Pacifico all'Atlantico, a New York, dove i rappresentanti del G5 (Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Francia e Germania) si diedero appuntamento al Plaza Hotel per discutere gli squilibri che stavano caratterizzando le più importanti economie mondiali in quel periodo.

 

I delegati dichiararono che il dollaro era sopravvalutato e annunciarono un piano per riequilibrare la situazione: le economie che detenevano i maggiori avanzi delle partite correnti, cioè Giappone e Germania, si impegnavano ad aumentare i consumi interni e il valore delle loro valute; gli Stati Uniti, dopo una lunga lotta contro l'inflazione, erano pronti per una politica monetaria più rilassata che avrebbe consentito il deprezzamento del dollaro e una maggiore concentrazione sulla crescita. La Federal Reserve intervenne sulla valuta e sui tassi di breve termine, una manovra che condusse lo yen giapponese e il marco tedesco ad apprezzarsi sensibilmente sul biglietto verde.

 

Ma per Tokyo iniziava a muoversi quella catena di eventi che avrebbe condotto al "decennio perduto" degli anni '90: nella prima metà del 1986 la crescita e le esportazioni giapponesi si erano praticamente bloccate. Con un'economia in recessione e lo yen sempre più forte, il governo decise di intervenire attraverso un piano macroeconomico che comprendeva la riduzione dei tassi d'interesse e un pacchetto di stimoli fiscali, anche se già nella seconda metà del 1986 l'economia nipponica stava assistendo ad una vigorosa ripresa:  "l'anno successivo la produzione giapponese era già in pieno boom - si legge nel rapporto - ma lo erano anche la crescita del credito e i prezzi degli asset. Tra il 1985 e il 1989 il mercato azionario e i prezzi dei terreni nelle aree urbane triplicarono. Poi, nel gennaio 1990, esplose la bolla azionaria". Era iniziato il "decennio perduto", i cui effetti si fanno sentire ancora oggi.

 

 

Ma secondo i due economisti del Fondo Monetario Internazionale, le politiche espansive adottate in seguito all'apprezzamento dello yen non sono sufficienti a spiegare lo scoppio della bolla speculativa: se in Giappone non si fosse assistito fin dagli anni '70 ad una vasta deregulation finanziaria che portò a quotarsi in borsa la maggior parte delle società - conducendo gli istituti di credito a puntare tutto sul mercato immobiliare - e se il governo fosse intervenuto prima del 1990 a frenare la bolla del real estate che si era formata, Tokyo non avrebbe subito danni così pesanti.

 

 

Esistono diverse interpretazioni della crisi giapponese, e non tutte coincidono con quella fornita da Felman e Leigh, ma il rapporto dei due economisti entra nel vivo quando si tratta di stabilire un paragone con l'attuale situazione della Cina. Com'è noto, da tempo Pechino viene accusata di mantenere artificialmente basso il valore dello yuan per sostenere le sue esportazioni. Nonostante dal giugno dell'anno scorso la moneta cinese si sia apprezzata del 4.5% sul dollaro, le pressioni per un'ulteriore riforma del tasso di cambio non si sono interrotte, e si devono scontrare con la linea cinese secondo la quale uno yuan più forte precipiterebbe l'economia cinese in una situazione analoga a quella del Giappone degli anni '90. Contemporaneamente, gli ultimi dati pubblicati venerdì scorso lasciano pochi dubbi: nel primo trimestre l'indice dei prezzi al consumo è cresciuto del 5.4% raggiungendo il livello più alto degli ultimi tre anni (questo articolo). Domenica la Banca centrale ha nuovamente aumentato i requisiti di riserva obbligatoria degli istituti di credito, che segnano un nuovo record. L'economia cinese corre a un ritmo troppo elevato, l'inflazione aumenta, e le ultime dichiarazioni del premier Wen Jiabao e del governatore di People's Bank of China Zhou Xiaochuan lasciano intuire che il tasso di cambio dello yuan adesso potrebbe essere un ulteriore strumento per contenere il surriscaldamento del mercato, una posizione più possibilista rispetto alla linea tenuta finora.

 

Secondo il rapporto FMI le ragioni per le quali uno yuan più forte non metterà in moto la stessa catena di eventi che congelò il Giappone sono almeno tre: le famiglie, le società cinesi e il governo sono meno indebitati rispetto a quelle giapponesi di venti anni fa. Il Dragone ha più margini di manovra per migliorare la qualità delle sue esportazioni di quante non ne avesse il Sol Levante. Infine,  proprio il controllo esercitato sul tasso di cambio dello yuan gioca un ruolo decisivo: mentre lo yen degli anni '90 sottostava a un regime di fluttuazione libera, il tasso di cambio dello yuan viene determinato dalla Banca centrale, che potrà evitare un apprezzamento eccessivo.

 

 

Il controllo esercitato sulla moneta, oggetto di critiche accese da parte di Washington, diventa insomma secondo il Fondo Monetario Internazionale un punto di forza per condurre Pechino al di là delle secche che paralizzarono Tokyo. Navigando a vista, tra l'esigenza di non rallentare la crescita e quella di frenare un'inflazione che sta rendendo la vita di ogni giorno sempre più dispendiosa per una enorme fetta della popolazione.

 

 

di Antonio Talia

 

 

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