Pechino non parlerà yankee
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Pechino non parlerà yankee

Pechino non parlerà yankee

OCCIDENTE E ORIENTE
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Nel primo decennio del XXI secolo abbiamo assistito a un drastico rovescio di fortuna nel prestigio di modelli politici ed economici diversi. Dieci anni fa, alla vigilia della bolla delle dottcom, gli Stati Uniti si trovavano in una situazione di netta superiorità. La democrazia statunitense era presa a modello, pur non essendo sempre amata; la sua tecnologia si diffondeva in tutto il mondo; il capitalismo "anglosassone", poco regolamentato, era considerato destinato a prevalere a ogni latitudine. Ma gli Stati Uniti sono riusciti a dilapidare quell'ingente capitale morale: la guerra in Iraq, la stretta associazione che si è venuta a creare tra invasione militare e promozione della democrazia l'hanno infangata, mentre la crisi finanziaria a Wall Street ha posto fine all'idea che si potesse fare affidamento sull'autoregolamentazione dei mercati.
La Cina, al contrario, è in netta ascesa. Il presidente Hu Jintao è a Washington in questi giorni per una delle sue rare visite di stato nel momento esatto in cui molti cinesi considerano il modo col quale hanno superato la crisi finanziaria come una rivincita del loro sistema, e l'inizio di una nuova éra, nella quale le idee liberali di stampo statunitense non saranno più preponderanti. Le aziende di proprietà statale sono tornate in auge e sono state il dispositivo prescelto tramite il quale Pechino ha coordinato i suoi cospicui stimoli economici.
Qual è il modello cinese? Molti osservatori distrattamente lo inseriscono nella categoria del "capitalismo autoritario", insieme a Russia, Iran e Singapore. Il modello cinese, invece, è del tutto sui generis: definirne e descriverne la modalità precisa di governance è difficile, e ancor più difficile è imitarla, motivo per il quale non si presta a essere esportato altrove.
Il sistema politico cinese fa affidamento su un punto di forza particolare, la sua capacità di prendere decisioni complesse e di grande impatto in tempi rapidi e oltretutto relativamente bene, quanto meno in politica estera. Nondimeno, il governo cinese si distingue per una maggiore qualità rispetto a quello russo, iraniano o di altri regimi autoritari con i quali è spesso annoverato senza distinzione alcuna, proprio perché la leadership cinese si sente in parte tenuta a rispondere del proprio operato nei confronti della popolazione. Questa responsabilità precisa non è procedurale, ovviamente: l'autorità del partito comunista cinese non è limitata da alcuna legalità né da elezioni democratiche. In ogni caso, i dirigenti cinesi prestano attenzione nei confronti della classe media urbana e degli interessi delle potenti aziende che producono occupazione, ma reagiscono anche allo sdegno provocato da casi di corruzione tra i quadri di partito di più basso livello.
Gli americani a lungo hanno auspicato che i cinesi potessero intraprendere una transizione democratica di pari passo all'acquisizione di un maggiore benessere, e prima di diventare sufficientemente forti da trasformarsi in una minaccia strategica e politica. Ciò pare alquanto inverosimile, però.
Pur essendo una situazione paradossale per un paese che afferma ancora di essere comunista, la Cina negli ultimi tempi è contrassegnata da crescenti sperequazioni. Molti agricoltori e operai godono ben poco della crescita del paese, mentre altri sono sfruttati in modo spietato. La corruzione è diffusa, e contribuisce a esacerbare le diseguaglianze. A livello locale vi sono incalcolabili casi di collusione del governo con i procuratori immobiliari per appropriarsi della terra di agricoltori disgraziati. Questo fenomeno alimenta una rabbia repressa, sfociata in parecchie decine di azioni di protesta sociale, spesso violente, ogni anno.
Il partito comunista pare pensare di essere in grado di affrontare il problema della diseguaglianza tramite una migliore reattività da parte della propria gerarchia alle pressioni popolari.In questo periodo sta spostando la spesa sociale verso l'interno, spesso trascurato, per alimentare i consumi e allontanare i disordini sociali. Dubito che questo approccio possa dare buoni frutti: qualsiasi sistema di responsabilità che parta dall'alto e sia diretto al basso deve affrontare problemi insolubili di controllo e di reazione a ciò che accade sul terreno. Una responsabilità efficace può venirsi a creare soltanto tramite un processo che parta dal basso e sia diretto all'alto, oppure quella che noi definiamo democrazia.
Occorre prendere atto di questi problemi e risolverli. Ma nel modello americano sussiste un problema più grave, che è ben lungi dall'essere risolto. La Cina si adatta rapidamente, prende decisioni difficili e le traduce in realtà in modo efficace. Gli americani vanno orgogliosi dei riscontri e dei bilanci costituzionali, basandosi su una cultura politica che diffida di fatto del governo centrale. Questo sistema ha garantito la libertà dell'individuo e una grande dinamicità del settore privato, ma ormai è molto polarizzato e ideologicamente intransigente. Oggi esso evidenzia scarsa propensione e risolvere le sfide fiscali a lungo termine alle quali devono far fronte gli Stati Uniti. La democrazia in America avrà anche una legittimità intrinseca di cui è privo il sistema cinese, ma non potrà costituire un modello per nessuno se il governo è spaccato e non riesce a governare. Durante le proteste di Tienanmen del 1989, studenti e manifestanti eressero una copia della Statua della Libertà per rappresentare le proprie aspirazioni. Se esisterà qualcuno in Cina disposto a far altrettanto in futuro dipenderà da quanti americani si impegneranno a risolverne i problemi oggi.
Traduzione di Anna Bissanti
© FINANCIAL TIMES

19/01/2011
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