Pechino non deve far paura a Tokyo e all'Occidente
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Pechino non deve far paura a Tokyo e all'Occidente

Pechino non deve far paura a Tokyo e all'Occidente

INTERVISTA - Richard Bush III
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Gestire la rapida crescita cinese. Non è solo il problema numero uno per i politici e i burocrati di Pechino, ma lo è diventato per gli Usa, il Giappone e l'intera comunità internazionale. A sottolinearlo è Richard C. Bush III, direttore del Center for Northeast Asian Policy Studies alla Brookings Institution. Bush ha scritto «The Perils of Proximity», sulle relazioni tra i due grandi vicini asiatici, e non ha esitato a discutere i rischi di un conflitto tra Cina e Stati Uniti in «A War like no other: the truth about China's challenge to America», focalizzato sulla sfida all'attuale superpotenza globale rappresentata dalla nuova superpotenza (sia pure per ora solo economica) emergente.
La Cina è diventata la seconda economia mondiale. Al simbolismo dei numeri corrisponde una svolta storica di cui è il caso di preoccuparsi?
Di per sé la notizia di questi giorni non aggiunge niente a quello che già sapevamo. Il sorpasso sul Giappone dipende dalla metodologia utilizzata: se si sta al Pil pro-capite, ad esempio, la Cina non ne esce bene in termini di sviluppo e di welfare umano. D'altra parte, il trend che riflette è di profondo significato: la Cina sta diventato più potente in differenti modi e ha la potenzialità per cambiare la balance of power nel mondo.
Questo trend che problemi pone?
La questione è: cosa sta facendo e cosa farà la Cina in seguito a questo nuovo potere economico che sta accumulando con rapidità sorprendente? Ci sono già segnali che lo stia trasformando in una maggiore potenza militare, con un costante e graduale miglioramento delle sue capacità belliche. Certo è ancora lontata dall'acquisire lo status di superpotenza militare globale, se mai ci arriverà. Occorre quindi gestire la crescente potenza cinese al fine di ridurre la possibilità che le frizioni portino a conflitti.
C'è chi pensa che le aree e potenzialità di contrasto non potranno che aumentare.
Non c'è niente di inevitabile: la necessità di lavorare sodo per ridurre il potenziale di conflitto è compresa, in fondo, da tutti. Anche la Cina è consapevole che sarebbe controproducente alimentare i timori dei vicini. Ci sono molte aree di collaborazione da approfondire al fine di aumentare i costi del conflitto. Per esempio va rafforzato il dialogo, in profondità e frequenza, con i leader cinesi, per ridurre la possibilità di "misunderstanding".
L'economia finirà per portare alla democrazia?
Le opinioni in proposito sono diverse. Non è sicuro che crescita e libertà economica producano una democratizzazione della politica, anche se in Asia è successo, da Taiwan alla Corea del Sud. Certo la leadership cinese aspira piuttosto a riprodurre il piccolo esempio di Singapore. Penso comunque che la crescente complessità della società cinese e la rapidità della crescita indurranno ad aperture il Partito Comunista, proprio per gestire meglio il sistema. Ma non credo che io vedrò una Cina democratica. E spero di campare almeno altri 30 anni.
Conseguenze per Tokyo?
Il Giappone è in un dilemma. È preoccupato per la modernizzazione del dispositivo militare cinese e la potenziale minaccia alle vie marittime di comunicazione. Ma la popolazione non è sufficientemente consapevole dei costi necessari a garantire la stabilità nella regione. Per questo l'alleanza con gli Usa ha elementi di stress, ad esempio sulla ridislocazione delle forze a Okinawa. Ma questa alleanza poggia su basi solide e supererà i problemi contingenti.
Ci sono voci che Obama potrebbe andare a Hiroshima a novembre in occasione del summit dei Premi Nobel.
Altamente improbabile. È andato già l'ambasciatore Usa, per la prima volta, alla commemorazione di agosto. L'ipotesi di qualche forma di scusa per le atomiche resta molto, troppo controversa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

18/08/2010
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