Pechino lancia la grande corsa alle centrali
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Pechino lancia la grande corsa alle centrali

Pechino lancia la grande corsa alle centrali

I giganti dell'Asia. In tempi molto rapidi la Cina vuole aumentare dall'1 al 5% la quota del proprio fabbisogno energetico coperta attraverso il nucleare
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SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
La prima pietra del nuovo reattore nucleare di Ningde è stata posata giusto qualche settimana fa. Siccome i cinesi sono bravissimi a costruire tutto a ritmi record (Il tempo dirà con quali livelli qualitativi), e così il nuovo impianto situato nella provincia del Fujian dovrebbe diventare operativo già entro la fine del 2012.
Il nucleare è uno dei pilastri della politica energetica cinese. Spinta dalla fame crescente di materie prime necessarie per alimentare lo sviluppo economico e il processo di modernizzazione del paese, qualche anno fa Pechino ha capito che il suo portafoglio energetico andava radicalmente cambiato. E anche in tempi rapidi.
Per due ragioni. Una di carattere economico-politico: importare combustibili fossili costa, e costituisce un rischioso fattore di dipendenza dall'estero. L'altra di carattere ambientale: oggi il carbone copre quasi il 70% del fabbisogno energetico cinese e contribuisce per l'83% alle emissioni di gas serra del Dragone.
Così, all'inizio di questo decennio, il Governo cinese ha deciso di rispolverare i vecchi progetti di sviluppo dell'energia nucleare rimasti per lungo tempo nel cassetto.
La storia del nucleare in Cina, infatti, è controversa. Verso la metà degli anni 70, Pechino sembrava sul punto di abbracciare l'opzione nucleare per sostenere la crescita della domanda domestica di energia elettrica. Ma poi una serie di considerazioni spinsero il Governo a raffreddare il progetto. Per prima cosa, all'epoca la Cina poteva contare su abbondanti risorse di acqua, carbone e anche di petrolio che le garantivano la totale autosufficienza energetica. Secondo: a differenza del vicino Giappone (che da allora non a caso ha costruito una sessantina di centrali), la Cina era stata solo sfiorata dalla prima crisi petrolifera del 1973. Terzo: non avendo sviluppato in casa un know how nucleare, Pechino per sviluppare il nucleare sarebbe dovuta dipendere dai trasferimenti di tecnologia dall'estero. Quarto: a quei tempi la Cina era un paese povero e isolato dai commerci internazionali che non poteva permettersi di sostenere gli onerosi investimenti richiesti dall'opzione energetica atomica.
Ma la globalizzazione ha infranto per sempre il mito dell'autosufficienza energetica, spingendo la Cina verso nuovi orizzonti. Tra cui, appunto, l'energia nucleare che è diventata un settore strategico nel piano di diversificazione del portafoglio energetico nazionale.
E quando i cinesi attribuiscono a qualcosa una valenza strategica fanno sempre sul serio e non badano a spese. Il piano di sviluppo dell'energia nucleare messo a punto dal Dragone è senza dubbio il più colossale per investimenti, impiego di tecnologia e tempi di realizzazione nella storia dell'industria atomica.
Oggi, oltre la Grande Muraglia, sono in funzione 12 reattori nucleari, distribuiti su 4 centrali che hanno una capacità complessiva di 10mila megawatt annui. L'obiettivo di Pechino, secondo quanto previsto da una recente revisione del piano originario elaborato nei primi anni Duemila, è di aumentare la capacità atomica cinese a 70 gigawatt entro il 2020, tramite la costruzione di 28 reattori di nuova generazione. Di questi, una ventina sono già in costruzione e almeno una dozzina dovrebbe entrare in funzione già entro il 2015. A regime, il nucleare, che oggi copre poco più dell'1% del fabbisogno energetico nazionale, dovrebbe arrivare a soddisfare circa il 5% della domanda del Dragone.
In base ai piani originari, il potenziamento atomico cinese avrebbe richiesto circa 50 miliardi di dollari di investimenti (al tasso di cambio dell'epoca, oggi sono circa 10 miliardi in più). Con gli ampliamenti decisi in corso d'opera, posto che ogni gigawatt di potenza supplementare costa circa 2 miliardi di dollari, l'impegno complessivo di Pechino si aggira, secondo le stime attuali, intorno a 120 miliardi di dollari.
Una cifra colossale che, nel giro di un paio di decenni, trasformerà la Cina nel principale produttore di energia atomica del pianeta. E che, intanto, ha attirato come mosche al miele i grandi constructor internazionali come Areva, Westinghouse, Aecl, General Electric e Rostam, per i quali la scommessa cinese sul nucleare è una ghiotta e irripetibile opportunità di business.
Ma potrebbe essere solo l'inizio. Alcuni esperti del settore, infatti, stimano che, entro la metà del secolo, la Cina dovrà costruire altre 200 (se non addirittura 300) nuove centrali nucleari per soddisfare la sua domanda crescente di energia. L'uranio da bruciare nei reattori sarà reperito in parte tra le mura di casa (lo Xinjiang è ricco di giacimenti, e questa è la ragione per cui Pechino ha sempre stroncato sul nascere qualsiasi tentazione indipendentista della Provincia dell'Ovest cinese). E in parte sui mercati internazionali, sui quali il Dragone negli ultimi anni ha concluso numerosi accordi con grandi paesi produttori come Australia e Kazakhstan.
Sul nucleare cinese resta solo un punto oscuro: dove finiscono, e soprattutto dove finiranno, le montagne di scorie di materiale radioattivo prodotte dalle centrali nucleari di Pechino?
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TRA ECOLOGIA E POLITICA
Pechino schiaccia l'acceleratore sui piani per la costruzione di nuove centrali nucleari. Uno degli obiettivi della Cina è ridurre la dipendenza dal carbone, che oggi copre quasi il 70% del fabbisogno energetico del Paese e contribuisce per l'83% alle emissioni di gas serra del Dragone. La motivazione di carattere ambientale (intervenire sulle fonti di inquinamento) si sposa con quella di carattere geopolitico (non farsi legare le mani dall'import di combustibili fossili).

30/10/2010
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