Pechino guarda l'Italia « Vi manca la cura-Deng»
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Pechino guarda l'Italia « Vi manca la cura-Deng»

Pechino guarda l'Italia « Vi manca la cura-Deng»

ANALISI
di lettura
Che i cinesi amino l'Italia si nota già dai nomi che scelgono per le loro aziende. L'italianeggiante Lenovo è la più nota industria di computer, il più grande fondo di investimenti si chiama Primavera, la maggiore fabbrica di piastrelle è la Marco Polo, la clinica di chirurgia plastica che su ogni taxi di Pechino promette profili occidentali si chiama Donna Bella.
Un amore che l'Italia ha sempre ricambiato: l'Italia è stata la prima firmataria della richiesta per far entrare la Cina nell'Onu, ha dato la prima centrale nucleare civile alla Cina, è stata la prima a riaprire i rapporti politici dopo i fatti di Tiananmen dell'89 e così via.
Tanta ammirazione diventa perplessità quando i cinesi vedono quello che sta succedendo all'Italia amata. I cinesi hanno la memoria lunga. L'Italia appena venti anni fa, nel '91 alla vigilia di Mani Pulite e all'indomani degli accordi che avrebbero portato all'euro, il Pil italiano era il doppio di quello cinese, indiano e brasiliano sommati insieme.
Oggi invece il Pil cinese da solo è tre volte quello dell'Italia, mentre la politica e l'economia italiane fanno vacillare lo stesso euro.
I politici italiani che si alternano nelle visite ufficiali a Pechino rassicurano i cinesi con frasi di rito e chiedono aiuto nell'acquisto dei Bot o altre forme di investimento. Quasi un'ironia rispetto a vent'anni fa, quando l'Italia avrebbe dovuto finanziare e avere in concessione molti servizi e infrastrutture della Shanghai che stava raddoppiando. Il progetto fu sospeso e poi archiviato in via definitiva dall'Italia.
Dal punto di vista cinese, le questioni italiane sono a un tempo facili e incomprensibili. Perché – si chiedono a Pechino – l'Italia in questi anni di vacche magre non fa come fece il nostro Deng?
Le riforme di Deng in sostanza furono un'operazione molto semplice e a costo zero per lo Stato. Il Governo di fatto tagliò i mille lacci burocratici che frenavano le attività delle aziende. In più concesse sconti fiscali o esenzioni totali sulle tasse. E ha srotolato un "tappeto rosso" amministrativo agli stranieri che volevano investire in Cina.
Per completare il piano Deng, il Governo, allora poverissimo, concentrò tutte le risorse per sostenere le imprese di Stato. Ma poi, alla fine degli anni '90 ha riformato pesantemente anche quelle, licenziando più di 20 milioni di persone in un paio d'anni. Venti milioni. A titolo di confronto: la popolazione cinese è venti volte quella italiana; sarebbe come se da noi le imprese del parastato mandassero a casa un milione di dipendenti.
Lo Stato non dava sovvenzioni ad aziende o a privati, e i soldi che poteva risparmiarsi li mise per ripianare i debiti delle banche statali. La Cina non poteva permettersi altro.
Gli economisti e i politici cinesi si chiedono: perché l'Italia non può fare lo stesso? È sufficiente togliere i sussidi, e con il risparmio conseguito in questo modo può offrire sconti fiscali a chi reinveste i profitti in azienda.
In tal modo lo stato risparmia due volte: elimina parte della burocrazia impegnata a riscuotere le tasse e la burocrazia che distribuisce sussidi.
Inoltre il sistema Deng dà efficienza al sistema, perché il privato che spende nella sua ditta sa farlo meglio di un burocrate che forse sa amministrare il suo ufficio, ma se sapesse investire non starebbe lì a distribuire aiuti. Infine elimina fonti di corruzione che ci sono sempre nei canali di tasse e sussidi.
Questo in sostanza hanno fatto in Cina. Perché – domanda cinese – non si può farlo in Italia?
A questa domanda gli italiani di turno danno risposte spesso semplicistiche.
La società e la politica italiane (questa la spiegazione italiana più comune) sono contorte, e i governanti non hanno la facilità di uno strumento di governo autoritario come in Cina.
La risposta italiana appare – se ascoltata a Pechino – strana e incoerente.
Replica cinese: allora la democrazia è un sistema di governo inefficiente?
Seconda replica cinese: perché l'Italia e gli altri Paesi occidentali si dannano per convincere la Cina a diventare democratica? Per trascinarla forse in un baratro di caos, ingovernabilità e sottosviluppo?
Sappiamo che la spiegazione italiana sull'inapplicabilità del "metodo Deng" non è del tutto sincera. Tante democrazie si sviluppano egregiamente. Lo insegna l'Italia stessa, che ha vissuto il miracolo economico con il regime democratico e che è stata soffocata nella crescita durante la dittatura fascista.
Insomma, i pratici cinesi sono perplessi: quando la Cina era povera e non c'era niente da avere in cambio, l'Italia ha fatto tanto, ora che la Cina è ricca e ci sarebbe da mettere a frutto le buone azioni passate, Roma fa molto meno degli altri. Perché?
Secondo la Cina la ricetta è semplice: più mercato, più libertà di azione per le imprese, una meritocrazia autentica, uno Stato vigile, progetti politici di spessore.
Fu la grande politica a vedere la via d'uscita per Pechino negli anni '80. Questo sembra mancare all'Italia, vista da Pechino.
© RIPRODUZIONE RISERVATA di Francesco Sisci

21/08/2011
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