Pechino cerca la moneta di riserva (che non c'è)
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Pechino cerca la moneta di riserva (che non c'è)

Pechino cerca la moneta di riserva (che non c'è)

L'ANALISI
di lettura
«Se una persona ha un debito da mille dollari con una banca è preoccupata. Ma se quel debito sale a un miliardo di dollari, a preoccuparsi deve essere il banchiere».
Nelle ultime ore, dopo il downgrade di Standard & Poor's sul debito sovrano americano, una parte vasta e consistente dell'opinione pubblica cinese si è ricordata di un vecchio adagio di Wall Street, e ha scatenato una campagna di stampa contro il rischio default degli Stati Uniti. L'America, ammoniscono una serie di editoriali apparsi sui principali quotidiani cinesi, deve risolvere il nodo del debito pubblico senza ricorrere a svalutazioni del dollaro che deprimerebbero la fiducia degli investitori internazionali.
Insomma, dopo aver finanziato generosamente per anni il più affidabile debitore del pianeta, il banchiere comincia a essere seriamente preoccupato del reale grado di solvibilità del proprio cliente. E lo bacchetta come può per richiamarlo alle sue responsabilità senza utilizzare pericolose scorciatoie.
Difficile non comprendere i timori e le angosce di Pechino. Al 30 giugno scorso la Cina custodiva nei suoi forzieri 3.200 miliardi di dollari di riserve valutarie. Secondo alcune stime, oltre due terzi di questo immenso tesoro sarebbe immobilizzato in asset denominati in dollari. La porzione nota della scommessa cinese sul biglietto verde è rappresentata dai titoli del Tesoro americani, vale a dire 1.150 miliardi di dollari. Tuttavia, il reale ammontare di T-Bond nel portafoglio cinese sarebbe più elevato, poiché negli ultimi anni il Dragone ha sottoscritto quote crescenti del debito pubblico americano tramite intermediari finanziari residenti fiscalmente in diversi paesi del mondo.
La parte sommersa e ignota dell'affidamento cinese verso gli Stati Uniti ammonterebbe grosso modo a un altro migliaio di miliardi di dollari: azioni, obbligazioni, e attività immobiliari e finanziarie varie che gli investitori cinesi hanno acquistato negli ultimi anni a mani basse sull'altra sponda del Pacifico.
Che fare per ridurre il rischio legato all'enorme esposizione cinese nei confronti di Washington? La via d'uscita suggerita dai giornali cinesi che gridano al rischio dollaro è la solita: aumentare il grado di diversificazione delle riserve valutarie.
Ma è una soluzione impraticabile. Per tre buone ragioni. Perché richiederebbe tempi lunghi, sicuramente molto più lunghi dell'orizzonte ragionevole entro il quale gli Stati Uniti dovranno di necessità rimettere in sesto le loro finanze pubbliche. Perché un consistente alleggerimento di T-Bond da parte della Cina verrebbe immediatamente captata dal mercato, innescando un panic selling sul dollaro che potrebbe avere effetti devastanti sull'economia americana e su quella globale. E perché oggi, con l'aria che tira sull'Europa, Pechino non ha reali alternative agli investimenti nei Treasury Bond.
Oggi più che mai, insomma, le due superpotenze sono legate da un fragile "equilibrio di Nash" che ricorda molto la Mutua Distruzione Assicurata dei tempi della Guerra Fredda. Nessuno può permettersi di schiacciare il bottone per primo. Tantomeno il ricco e arrogante banchiere cinese.

09/08/2011
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