Pechino, 20 ott.: Il Dragone lancia un masso nelle acque già agitate delle economie mondiali, e gli effetti si diffondono a cerchi concentrici, ovunque: la Banca centrale cinese ha annunciato ieri a sorpresa il primo aumento dei tassi d'interesse dal 2007, in un deciso passo avanti verso l'uscita dalle politiche di stimolo varate nel 2008 per contrastare la crisi globale. Da People's Bank of China nessun commento ufficiale e nessuna spiegazione: solo un laconico comunicato col quale si annuncia un aumento dello 0.25% dei tassi sui prestiti e sui depositi ad un anno, effettivo già da oggi. Ma secondo analisti e osservatori dietro queste poche righe si possono celare molteplici ragioni, interne e internazionali, così come notevoli effetti, che in parte si stanno già verificando. Possibili ragioni interne: venerdì saranno pubblicati i dati su crescita economica ed inflazione, con qualche anticipazione che filtrerà già in nottata. È plausibile che tali risultati siano superiori alle previsioni e che quindi Pechino voglia frenare un surriscaldamento dell'economia e dell'inflazione che ad agosto aveva raggiunto quota 3.5%; ben al di là del tetto del 3% che il governo intende mantenere per quest'anno.
La leadership cinese, inoltre, potrebbe essere preoccupata per l'andamento del settore immobiliare: negli ultimi due anni -con il varo del pacchetto di stimoli da 4mila miliardi di yuan e le relative politiche espansive del credito adottate dalle banche- si è assistito a un boom indiscriminato degl'investimenti nel real estate, che hanno provocato enormi aumenti dei prezzi degl'immobili e seri dubbi sulle possibilità di un rientro di una parte dei prestiti erogati; le misure varate dall'aprile scorso (restrizioni sui mutui; aumenti dei requisiti di riserva obbligatoria delle banche, etc.) potrebbero ormai apparire insufficienti per arginare la speculazione, ed ecco che un aumento dei tassi sui prestiti e sui depositi avrebbe il doppio effetto di convincere il risparmiatore cinese a dirottare il denaro verso depositi e titoli statali anziché sugli investimenti immobiliari, dissuadendo anche il costruttore da avventate richieste di nuovi crediti. Più in generale, la sterzata della Banca centrale può denotare una maggiore coesione politica sulla riduzione della crescita a tutti i costi, magari maturata dopo il recente plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Ma sul piatto non ci sono solo questioni interne: la Cina com'è noto, affronta da mesi pressioni sempre più forti per un apprezzamento dello yuan. Washington accusa Pechino di mantenere artificialmente basso il tasso di cambio della sua moneta per garantirsi un vantaggio sleale nei commerci con l'estero; Pechino ha operato un lieve apprezzamento della valuta nel giugno scorso, ma ribatte che per impedire danni alle esportazioni ed evitare afflusso di capitali speculativi dall'estero la riforma della valuta sarà graduale. Da settimane, ormai, si sente parlare di "guerra valutaria", una situazione in cui varie nazioni hanno operato svalutazioni competitive per sostenere le proprie esportazioni.
Il vertice straordinario dell'FMI di Shanghai di lunedì scorso con i richiami alla cooperazione del direttore generale Dominique Strauss Kahn, ma qualche giorno prima il presidente della FED Ben Bernanke aveva dichiarato di essere pronto a utilizzare "armi non convenzionali" pur di rilanciare la crescita, lasciando intendere di essere pronto a un nuovo "allentamento quantitativo". Di cosa si tratta? La mossa consiste nello stampare altra moneta acquistando poi altri titoli a lunga scadenza del Tesoro, per far abbassare i tassi ed aumentare la liquidità, spingendo così il biglietto verde sempre più in basso per sostenere le esportazioni di beni Made in USA. Ma un dollaro troppo debole non può certo fare piacere a Pechino per almeno due motivi: il primo è che le sue immense riserve in valuta estera (che ormai hanno superato quota 2650 miliardi di dollari) sono denominate soprattutto in dollari, e la manovra della FED abbasserebbe il valore degli asset del Dragone; il secondo è che quei capitali speculativi che fuggono dalla moneta statunitense potrebbero dirigersi proprio sullo yuan, causando ulteriori afflussi di quella "hot money" che la Cina teme perché capaci di creare altre bolle e instabilità finanziarie. Uno dei rischi dell'aumento dei tassi di interesse consiste proprio nell'incremento degli afflussi di capitali speculativi, ma se alla prossima riunione di politica monetaria della FED il 3 novembre l'America avrà acquistato titoli di stato in misura minore rispetto alle bellicose dichiarazioni di Bernanke, allora probabilmente significherà che i colloqui intercorsi in questo periodo tra le due sponde del Pacifico hanno portato a una qualche forma di accordo tra USA e Cina. Intanto, gli effetti della mossa di Pechino si sono manifestati su vari fronti: la maggior parte dei mercati asiatici hanno chiuso al ribasso e anche i valori di varie monete dell'area (Singapore, Malaysia, Corea del Sud e Taiwan) e i prezzi di alcune commodities, dal petrolio al rame, hanno registrato un calo. Resta da vedere se questo aumento dei tassi d'interesse resterà un episodio isolato, dettato dalle condizioni contingenti delle ultime settimane, o se invece il Dragone ritiene che sia arrivato il momento giusto per rallentare la sua crescita. di Antonio Talia
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