Pechino all'Onu: fermate subito il processo a Bashir
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Pechino all'Onu: fermate subito il processo a Bashir

Pechino all'Onu: fermate subito il processo a Bashir

Darfur. Anche Mosca si schiera dalla parte del leader sudanese
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Roberto Bongiorni
Tutto secondo copione. La reazione cinese al mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale (Cpi) contro il presidente del Sudan Omar al-Bashir, accusato mercoledì di crimini di guerra e contro l'umanità nella regione del Darfur, non ha sorpreso nessuno. Ricorrendo al portavoce del Governo su un sito web, Pechino ha ribadito la sua linea, quella di una potenza che non vuole interferire negli affari interni di un Paese con cui peraltro ha da tempo instaurato un sodalizio economico - e politico - inossidabile. Dopo aver espresso «rammarico e preoccupazione» per il mandato d'arresto, Pechino ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell'Onu di «accogliere gli appelli dell'Unione africana, della Lega araba e del Movimento dei non allineati e di non procedere, per il momento, contro Bashir». Infine l'ultima dichiarazione, che suona come un severo monito: «La volontà del popolo sudanese e della comunità internazionale è quella di arrivare alla pace e allo sviluppo del Darfur nel più breve tempo possibile. La Cina è un membro permanente e responsabile del Consiglio di sicurezza dell' Onu e non vuole vedere gli sforzi che ha fatto e i risultati positivi che ha ottenuto nel Darfur finire nel nulla», ha precisato il portavoce del ministero degli Esteri. Già in diverse occasioni a Pechino è bastata la sola allusione al veto per annacquare i contenuti di alcune risoluzioni Onu sul Darfur.
Anche la Russia è tornata sugli stessi argomenti, chiedendo la sospensione per un anno dell'inchiesta contro Bashir. Il ministero degli Esteri ha poi fatto notare che Bashir, in quanto presidente di un Paese che non fa parte della Corte penale internazionale, nel rispetto del diritto internazionale, gode dell'immunità riconosciuta al più alto organo dello Stato. Lo Statuto della Corte stabilisce infatti che se il capo di Stato di un Paese che ha ratificato lo Statuto commette un crimine contro l'umanità perde il diritto di invocare le sue immunità e quindi può essere portato davanti al tribunale. Nel caso in cui la persona incriminata è il capo di uno Stato che non ha ratificato lo Statuto, come Cina, Usa, Russia ma anche il Sudan, l'immunità permane. A meno che il Consiglio di sicurezza decida che tutti gli Stati Onu debbano obbligatoriamente eliminare le immunità per le persone incriminate dalla Cpi. Cosa, in questo caso, non ancora avvenuta. Anche Siria, Iran e il movimento sciita libanese Hezbollah hanno condannato il mandato d'arresto contro Bashir.
Intanto nella capitale sudanese Khartoum sono proseguite le imponenti manifestazioni in favore di Bashir, 65 anni, al potere dall'89. «I veri criminali sono i leader americani ed europei», ha inveito Bashir, davanti ad almeno 5mila dimostranti, accusando Usa ed Europa di neocolonialismo e di essere i responsabili dei veri genocidi della storia recente: in Vietnam, Iraq, e nei territori palestinesi.
Il presidente si sente forte, soprattutto dopo l'entrata in campo della Cina. Il Sudan è il Paese con cui Pechino ha applicato alla lettera la sua politica dei tre assi: crediti agevolati senza chiedere la destinazione degli investimenti, non interferenza nelle decisioni attinenti la sovranità e offerta di uno scudo al Consiglio di sicurezza, qualora si rivelasse necessario.
D'altronde, da quando, nel 1997, l'Occidente ha preso le distanze da Khartoum, la Cina ha rafforzato la sua presenza. Nonostante le attuali difficoltà economiche Pechino deve far fronte a un incremento delle importazioni di greggio: trovare Paesi alleati che forniscano con una certa continuità energia diviene un imperativo. Dal 2003, anno in cui è iniziata la guerra in Darfur, al 2006 le spedizioni di petrolio dal Sudan a Pechino sono cresciute del 63%, fino a raggiungere un aumento del 113% nel 2007. La Cina importa circa il 60% dell'oro nero estratto in Sudan, Paese che produce quasi mezzo milione di barili al giorno. La compagnia petrolifera statale cinese Cnpc è di gran lunga il maggiore investitore nel Paese.
Il timore è che ora la crisi in Darfur si acuisca e venga meno parte degli aiuti agli sfollati, due milioni di civili dal 2003. Khartoum ha già espulso una decina di Ong, tra cui Save the Children, l'americana Care, l'inglese Oxfam, ritenute colpevoli di «speculare» sulla guerra nel Darfur. Le relazioni con le Ong sono sempre state complesso. Il 13 marzo 2008 un rapporto di Human Rights First legava il crescente acquisto di petrolio sudanese alla fornitura di armi, la cui destinazione sarebbe stata il Darfur.
roberto.bongiorni@ilsole24ore.com

06/03/2009
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