ADV
È ad esempio il caso della Cogliati Aurelio Sas, produttore di morsetterie elettriche a Lecco, 5 milioni di fatturato di cui il 30% all'export, sessant'anni di attività alle spalle: «Le cose vanno meglio e la nostra azienda ha tenuto bene perché lavora in una nicchia ad alta specializzazione», dice Cinzia Cogliati, che però ricorda con un brivido la seconda metà del 2008 utilizzando una metafora stradale: «Fino al primo semestre era come guidare un'auto che andava a 200 all'ora. Di colpo si è fermata». La resilienza è stata possibile grazie all'innovazione: «Abbiamo cambiato alcuni macchinari per aumentare la produzione e questo ci ha aiutato, anche se non sono certa che i segnali economici degli ultimi mesi indichino una ripresa sostenibile nel medio periodo». Si ritiene fortunata e anche privilegiata, Cinzia Cogliati, perché la sua azienda si è sempre finanziata con mezzi propri, anche durante la crisi: «Non invidio chi ha avuto a che fare con le banche in questo periodo e certo Basilea 3 non è stata d'aiuto al dialogo tra aziende e industria del credito».
Secondo lo studio che sarà presentato oggi al Forum, la stragrande maggioranza delle Pmi (2 su 3) ha cambiato la propria strategia durante la crisi con le seguenti modalità: aumentando i mercati di sbocco piuttosto che riducendoli con l'obiettivo di mantenere almeno invariata la quota dell'export sul fatturato; potenziando i canali di distribuzione; ampliando la gamma dei prodotti offerti. Uno su quattro dichiara inoltre di aver associato le forniture di prodotti alla vendita di servizi. Quanto alle strategie di innovazione, non solo hanno dovuto puntare su una maggiore differenziazione produttiva (produzioni diverse nell'ambito di uno stesso settore) ma si sono dovute impegnare in una vera a propria diversificazione, esplorando la possibilità di produrre in altri settori.
Le incognite sulla strada del consolidamento della ripresa sono ancora molte, a cominciare dalla variabile valutaria. Il recente apprezzamento dell'euro sul dollaro è una cattiva notizia della quale le Pmi, ma anche le meno piccole, avrebbero fatto volentieri a meno. Per un paese esportatore che non può più contare sullo stellone della svalutazione competitiva, rischia di diventare una discriminante tra stallo e uscita dalla crisi. «Sulla vulnerabilità del made in Italy rispetto alle oscillazioni valutarie - dice Ambra Redaelli, presidente di Piccola industria in Lombardia e amministratore delegato della Rollwasch italiana, produttrice di macchine per il trattamento delle superfici - molto dipende dai settori. Nelle macchine utensili e in genere nell'industria ad alta tecnologia le tensioni si avvertono meno. Poi, da tempo, aziende come la mia e molte altre che conosco personalmente riescono a imporre contratti in euro anche fuori dall'Unione monetaria, il che riduce a zero il rischio di cambio. Ed è una prassi molto più frequente di quanto si possa pensare. Direi che in questo senso l'euro ci ha messo subito al riparo dalle vecchie e violente oscillazioni cui eravamo abituati nei decenni scorsi». Secondo l'imprenditrice, il problema è molto complesso ed essenzialmente politico: «Non è solo una questione di euro-dollaro. C'è il renmimbi, che continua ad essere spaventosamente basso. Mi pare sia in corso una moderna guerra mondiale».
Una quota importante delle imprese intervistate, oltre un terzo, ha infine sperimentato sulla propria pelle una recrudescenza del protezionismo, soprattutto nelle grandi economie emergenti (Russia, Cina e Brasile in ordine di importanza del fenomeno) e in Giappone.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
15/10/2010
Condividi
ADV