Niente cambio per la febbre cinese
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Niente cambio per la febbre cinese

Niente cambio per la febbre cinese

VISTO DA PECHINO
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La doppietta di dati cinesi su commercio e inflazione ha sorpreso gli analisti e creato non poca difficoltà al vertice per il dialogo economico e strategico sino-americano. Mentre lunedì l'aereo del segretario del Tesoro Geithner atterrava a Pechino, è emerso che il surplus commerciale cinese in aprile è stato di 11,4 miliardi di dollari. Una risalita violenta, dopo un trimestre addirittura in deficit. Ieri, invece, è uscito il tasso d'inflazione dei prezzi al consumo di aprile, stimato al 5,3% sull'anno precedente. Anche se in leggero rallentamento rispetto a marzo, comunque rivela una continua forte tensione sui prezzi interni.
Doppi dati e doppia beffa. Primo, lo squilibrio commerciale tra Cina e resto del mondo, che sembrava avviarsi a una composizione nei mesi scorsi, è ancora tale. Secondo, l'aumento dei prezzi interni, anche se determina una rivalutazione del tasso di cambio reale cinese, non è in grado di riequilibrare il commercio internazionale. Se a questo quadro si aggiunge che il tasso nominale dello yuan si è rivalutato del 5% rispetto al dollaro negli ultimi mesi, il quadro è ancora più desolante: la principale richiesta dell'Occidente alla Cina, apprezzare il cambio, anche se messa in atto, difficilmente potrà migliorare la nostra competitività.
Certamente al surplus cinese ha contribuito il rallentamento delle importazioni, cresciute a un tasso inferiore alle attese, in parte per l'aumento dei prezzi delle commodity e in parte per il rallentamento della domanda interna indotta dalle misure anti-inflazionistiche del Governo. Ma soprattutto sono cresciute le esportazioni: un aumento di quasi il 30% rispetto all'anno precedente. Fra l'altro, la crescita è stata maggiore verso gli Stati Uniti, rispetto a cui il cambio si è in effetti rivalutato, che verso l'Europa, dove invece il rapporto tra le valute si è mosso in direzione opposta: la moneta cinese, soprattutto ancorata al dollaro, ha perso posizioni rispetto all'euro.
Ora la questione è capire le ragioni per cui gli scambi con la Cina rispondono poco alla dinamica dei tassi di cambio. Soprattutto visto che i prezzi interni in salita e la necessità di controllarli stanno rendendo inevitabile un continuo apprezzamento del tasso di cambio reale cinese.
Una prima spiegazione ha a che fare con la struttura del commercio cinese. Le esportazioni da questo Paese in realtà incorporano poco valore aggiunto prodotto localmente. Su questo punto di vista è stato molto chiaro il vice primo ministro Wang Qishan, che di fatto è il responsabile economico del Governo. Intervistato da Charlie Rose nel più seguito talk show americano, ha dichiarato: «Dimenticatevi del tasso di cambio, gran parte del nostro surplus con gli Stati Uniti dipende dal fatto che il nostro è un commercio di trasformazione, i componenti delle nostre esportazioni sono prodotti nei Paesi avanzati».
Per capire quanto abbia ragione basta smembrare un iPhone, che sul retro ha scritto «designed in California and made in China». Come scrive Yuqing Xing su voxeu.org, la Cina semplicemente assembla componenti che arrivano dal Giappone, dalla Corea, dalla Germania e dagli Usa. Su un costo di produzione pari a 178 dollari, il valore aggiunto cinese è di 6,5 dollari, ossia il 3,6% del costo complessivo.
Dunque, per quanto per l'Apple sia assai conveniente assemblare in Cina, la rivalutazione del cambio ha un impatto minimo sul costo d'importazione in America o in Europa dell'iPhone. Ovviamente non è così per tutti i prodotti, ma l'esempio dell'iPhone ci indica quanto comunque le esportazioni cinesi siano un componente della manifattura americana di cui non è facile fare a meno. E lo stesso vale per la manifattura europea, che usa in modo crescente trasformazione e componenti cinesi.
Una seconda spiegazione ha a che fare con i modelli di consumo. Non c'è dubbio che le importazioni di beni dalla Cina a basso prezzo abbiano indotto un forte aumento dei consumi reali in Occidente. Le catene di vestiti, scarpe o articoli sportivi a basso costo non esisterebbero senza la Cina. Questo meccanismo di welfare implicito è difficilmente sostituibile. Prima che i beni cinesi possano essere forniti da qualche altro Paese a costi più bassi dell'Impero di mezzo ci vorrà tempo. Per capire la natura del problema consiglierei a tutti di leggere il libro di Sara Bongiorni, A year without made in China, il resoconto dell'esperimento fallimentare fatto da un famiglia americana di vivere un anno senza comperare prodotti cinesi.
In conclusione, la fine della "Cheap China" non rallenterà granché le esportazioni cinesi e rischia di essere un guaio per molti. Se farà bene a settori e imprese in diretta concorrenza con la Cina, in molti altri casi determinerà soprattutto un aumento dei costi di produzione, e comunque una perdita di benessere per i consumatori. E l'Italia, che come l'America dalla Cina importa molto più di quanto esporti, è destinata a risentirne particolarmente.
barba@unimi.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA

12/05/2011
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