Monaci buddisti anti-suicidi a Foxconn
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Monaci buddisti anti-suicidi a Foxconn

Monaci buddisti anti-suicidi a Foxconn

Dall'inizio dell'anno si sono tolti la vita nove dipendenti della fabbrica cinese più grande del mondo
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Luca Vinciguerra
SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
Un salto nel vuoto, lo schianto sul selciato, e poi il buio. È questa la tragica fine toccata negli ultimi mesi a ben nove dipendenti di Foxconn, la gigantesca azienda cinese (ma a capitale taiwanese) che produce componentistica per l'industria elettronica globale: non c'è televisore Sony, telecamera Samsung, computer Dell, telefonino Nokia, iPod (e ora anche iPad) targati Apple, che al suo interno non contenga almeno un pezzettino sfornato dalla città-fabbrica situata a Longhua, una cittadina satellite di Shenzhen.
L'ultimo suicidio è di venerdì. Un operaio di 21 anni è salito su una tettoia e si è gettato nel vuoto. Le ragioni del drammatico gesto sono sconosciute. Così come sono sconosciute le ragioni che dall'inizio dell'anno a oggi hanno spinto altri otto giovani dipendenti di Foxconn a togliersi la vita tra le mura della più grande fabbrica del mondo. Dodici chilometri di periplo all'interno dei quali si susseguono senza soluzione di continuità stabilimenti, catene di montaggio, magazzini, ribalte, piazzali gremiti di camion, mense e dormitori. E dove lavorano circa 300mila persone, per lo più giovanissime: il 90% dei dipendenti di Foxconn, infatti, ha meno di 25 anni.
Com'è la vita là dentro? «È una vita normale, uguale a quella che conducono gli operai nelle altre fabbriche della zona: si lavora, si mangia e si dorme. Niente di più», hanno raccontato al Sole-24 Ore alcuni lavoratori fuori dai cancelli (l'ingresso alla fabbrica moloch è tassativamente vietato ai giornalisti). E i ritmi di lavoro? «Normali anche quelli, scanditi in turni in terza con straordinario nei periodi di maggior pressione produttiva». Insomma, il "tasso di alienazione" degli operai di Foxconn non sembra discostarsi da quello di decine di migliaia di altre fabbriche del delta del Fiume delle Perle, dove ogni giorno eserciti di emigranti sbarcano il lunario facendo lavori ossessivi e ripetitivi che alla lunga logorano il corpo e la psiche.
E allora cosa ha spinto quei ragazzi in camice blu a suicidarsi? Nessuno oggi è in grado di fornire una risposta, né dentro né fuori le mura di Foxconn. «I nostri operai lavorano in condizioni decisamente migliori e percepiscono salari più alti rispetto alla media dell'industria manifatturiera cinese», spiega un portavoce di Foxconn, ammettendo che nel 2010 il numero dei suicidi in fabbrica è drammaticamente aumentato: nel 2009 erano stati tre.
«La nostra non è una fabbrica dove gli operai gettano lacrime e sangue», ha detto ieri Terry Gou, l'azionista di controllo di Foxconn, uscendo finalmente dal suo silenzio per prendere posizione sulla vicenda. Il padre-padrone del colosso manifatturiero di Longhua ha fama di imprenditore duro e spietato. Cinquantotto anni, taiwanese di nazionalità ma cinese d'origine (suo padre era un soldato dell'Armata nazionalista, che nel 1949 dopo la sconfitta contro l'esercito maoista, riparò a Formosa), Gou è il tipico cinese venuto dal nulla che si è fatto tutto da sé. Grazie alla sua grinta e alla sua determinazione, nel giro di trent'anni è riuscito a trasformare un negozio di elettrodomestici nella maggiore azienda di componentistica del pianeta. E a diventare uno dei duecento uomini più ricchi del mondo.
La formidabile parabola imprenditoriale di Gou, però, presenta anche delle inquietanti zone d'ombra. Nel 2006, mentre l'economia mondiale e i consumi americani tiravano fortissimo, alcuni magazine cinesi scrissero che, per garantire i picchi di produzione, gli operai del colosso elettronico di Longhua erano costretti a sobbarcarsi fino a 80 ore di straordinario, cioè più del doppio del massimo consentito per legge. Insomma, sfruttamento della persona in piena regola.
La Apple, il committente straniero all'epoca più investito dallo scandalo, avviò un'indagine conoscitiva. Il management del gruppo cinese respinse le accuse giudicandole infamanti e prive di fondamento, e citò in giudizio i giornalisti autori dell'inchiesta, chiedendo un risarcimento da record. Tutto si risolse poi in una bolla di sapone.
Da allora, tuttavia, Foxconn non è più riuscita a sbarazzarsi della fama di fabbrica-lager. Un lager dove ora, di fronte all'emergenza suicidi, i manager stanno cercando disperatamente di correre ai ripari: per sostenere i lavoratori depressi, l'azienda ha costituito un centro di assistenza psicologica e ha assunto un centinaio di monaci buddisti.
ganawar@gmail.com
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Il gruppo di Terry Gou
La Foxconn di Longhua (nella foto), cittadina satellite di Shenzhen, nel Guangdong, è il braccio operativo di Hon Hai Precision, gruppo quotato a Taipei (ma ancora controllato da Terry Gou), con 50 miliardi di dollari di fatturato annuo e 500mila dipendenti in tutta la Cina. Ha stabilimenti in Brasile, Messico, Ungheria, Repubblica Ceca, India e Vietnam. Produce componenti per l'industria elettronica: Sony, Samsung, Dell, Nokia e Apple
Il fondatore Terry Gou, 58 anni, taiwanese di nazionalità ma cinese d'origine, ha puntato a partire dagli anni 70 sull'elettronica, un settore che rappresenta circa un terzo delle vendite del made in China all'estero. Secondo la classifica pubblicata da Forbes, Gou è oggi al 160° posto tra gli uomini più ricchi del pianeta
La città-fabbrica
Lo stabilimento di Longhua è una sorta di città-fabbrica, la più grande del mondo con 300mila operai che lavorano e vivono al suo interno
Tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009 - come riportato dal Sole 24 Ore del 7 gennaio - la crisi economica aveva portato a licenziare - ma i tagli non sono mai stati confermati dal gruppo - almeno 40mila persone

25/05/2010
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