Marchi italiani in Cina a tappe forzate
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Marchi italiani in Cina a tappe forzate

Marchi italiani in Cina a tappe forzate

Focus. Nel 2009 venduti beni di largo consumo per 630 milioni di dollari, un livello inadeguato all'aumentata capacità di spesa dei cinesi
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Luca Vinciguerra
SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
Le cicale cinesi cantano sempre più forte. «L'anno scorso i nostri consumi domestici sono aumentati di oltre il 100%», ha annunciato ieri a Milano, He Guoqiang, membro del Comitato Permanente del Politburo del Partito Comunista Cinese.
Le cifre citate dal pezzo da novanta della nomenklatura pechinese, in realtà, vanno prese con le molle. Le statistiche cinesi, infatti, non forniscono i dati disaggregati sulla dinamica della domanda aggregata, e così nella voce consumi privati ci va dentro un po' di tutto, comprese alcune spese della pubblica amministrazione. Ciononostante, oggi oltre la Grande Muraglia gli spendaccioni sono sempre di più, consumano sempre di più e, soprattutto, crescono a vista d'occhio. E gli aumenti salariali attesi in tutto il paese dopo le vicende Honda e Foxconn dovrebbero favorire questa tendenza.
In questo quadro, a poche ore dalla conclusione della grande missione di sistema italiana in Cina, la questione è d'obbligo: quali sono le prospettive del made in Italy sul mercato cinese, e cosa si può fare per spingere le nuove cicale con gli occhi a mandorla ad acquistare i beni di consumo prodotti dal Belpaese?
La situazione è nota da tempo. In Cina vendiamo con successo grosse quantità di beni strumentali, da sempre molto apprezzati dall'industria di trasformazione locale. Basti pensare che, da soli, i macchinari rappresentano oltre la metà delle nostre esportazioni verso Pechino.
Ma i beni di largo consumo stentano sempre a decollare. Le cifre parlano da sole. Nel 2009 l'Italia ha venduto oltre la Grande Muraglia poco più di 280 milioni di dollari di abbigliamento, 150 milioni di scarpe, 110 milioni di arredamento e appena 90 milioni di agroalimentare. Insomma, noccioline. «Non sfondiamo perché non abbiamo un cavallo di Troia che ci consenta di aprire le porte di questo mercato – dice Saro Capozzoli, direttore generale di Jesa Consulting – Prendiamo l'agroalimentare. A distribuirlo qui sono, oltre ai cinesi, i francesi, i tedeschi, gli americani o gli australiani che non hanno alcun interesse specifico a promuovere i nostri prodotti. Ma perché Esselunga o Coop non provano a sviluppare una loro rete per commercializzare in Cina il cibo e il vino made in Italy?».
La mancanza di catene distributive nazionali è l'antico problema, quasi il vizio d'origine, che ha sempre frenato la lunga marcia dei beni di consumo italiani in Cina. La situazione è leggermente migliorata qualche anno fa quando, grazie alle nuove normative varate da Pechino, i grandi gruppi (soprattutto quelli del settore moda) hanno iniziato ad auto-distribuire i propri prodotti sul mercato locale. Ma per tutti gli altri non è cambiato nulla e così per le aziende più piccole, che non possono contare su catene di retail locali, sbarcare in Cina continua a essere missione quasi impossibile.
C'è poi anche un problema di localizzazione. «Quando nel dopoguerra Colgate decise di vendere i suoi prodotti in Europa, i dentifrici non si mise certo a esportarli dagli Usa. Per dire che, se si vuole vendere in Cina, bisogna stare vicino ai consumatori anche con le produzioni» avverte Franco Cutrupia, presidente della Camera di commercio italiana in Cina. «Senza le produzioni locali non si va lontano. Se vogliono conquistare i consumatori cinesi, le aziende italiane devono aumentare i loro investimenti diretti in questo paese» concorda Capozzoli.
L'idea, in fondo, è semplice: produrre in Cina per vendere in Cina. Il che non significa perdere posti di lavoro in Italia. Al contrario talvolta significa salvarli, perché è solo grazie al successo conseguito sul mercato cinese se molte nostre aziende in questi ultimi anni sono riuscite a sopravvivere alla crisi. «Quando si va alla conquista di mercati lontani, bisogna essere pronti a stare sul posto per promuovere i propri prodotti, per fornire un servizio post-vendita, per sviluppare una comunicazione locale – sostiene Beniamino Quintieri, commissario generale del governo italiano per l'Expo 2010 – Insomma, le aziende italiane dovrebbero combinare di più la loro eccellente vocazione produttiva con una maggiore presenza diretta».
E infine c'è un problema di marchi. «Il mercato del largo consumo cinese è ancora immaturo e quindi scarsamente ricettivo per i brand poco famosi - spiega Maurizio Forte, direttore dell'Ice di Shanghai –. Ma prima o poi si normalizzerà, nel senso che raggiungerà un maggior grado di segmentazione, che il sistema distributivo diventerà più capillare, che crescerà l'attenzione anche per i marchi medio-piccoli. A quel punto, per le aziende italiane si apriranno opportunità molto interessanti».
ganawar@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

08/06/2010
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