Roma, 09 dic. - Il fumetto è l'ultimo approdo di una vicenda artistica dalle molteplici sfaccettature come quella di Gianfranco Manfredi, un autore animato da una creatività eclettica e irrequieta che lo ha visto attraversare gli universi della musica e del cinema, della narrativa e della saggistica, prima di diventare uno degli autori più affermati e prolifici della scuderia del compianto Sergio Bonelli.
Nato a Senigallia nel 1948, si trasferirà a Milano per studiare filosofia. E' nel capoluogo lombardo che entrerà in contatto con la nascente controcultura giovanile di fine anni '60, entrando nel gruppo della rivista "Re Nudo". E' questa temperie che influenzerà il suo primo album da cantautore, "La Crisi", risalente al 1972, dove il mondo della contestazione e del movimentismo viene raccontato con occhio ironico in brani dai titoli emblematici come "E Giuseppe leggeva Lenin" e "Sei impazzita per Marcuse"
La sua carriera discografica, che lo vedrà collaborare – tra gli altri – con Ricky Gianco e la Premiata Forneria Marconi, si diraderà dopo la pubblicazione dell'album omonimo del 1981. Si era infatti nel frattempo sempre più intensificata la sua attività sul grande schermo, cominciata con il cult movie di Salvatore Samperi "Liquirizia", che lo vede in veste di sceneggiatore, di autore della colonna sonora e addirittura di attore. Tutti ruoli nel quale lo vedremo cimentarsi anche in seguito al servizio di registi del calibro di Steno, Bruno Corbucci e perfino Massimo Troisi (reciterà un ruolo in "Le vie del signore sono finite". Risale invece al 1978 il suo primo libro, "L'amore e gli amori in J.J. Rousseau", seguito immediatamente da un volume dedicato a Lucio Battisti pubblicato dalla Lato Side Editori, per la quale usciranno tutti i suoi saggi di critica musicale.
Sarà però la sua altrettanto intensa attività di romanziere, proseguita fino ai giorni nostri (il suo ultimo lavoro, "Tecniche di Resurrezione", è stato pubblicato l'anno scorso dalla Gargoyle Books) che creerà i presupposti per il suo ingresso nel regno delle nuvole parlanti, che avverrà nel 1991 con "Gordon Link", una delle pubblicazioni più riuscite nate sulla scia del successo di Dylan Dog. Ed è proprio un'avventura dell'indagatore londinese, intitolata "I giorni dell'incubo", che segnerà nel '94 il suo esordio per Bonelli, a conferma della sua predilezione per le atmosfere horror, ampiamente testimoniata dalla sua produzione narrativa, forte di titoli come "Magia Rossa", "Ultimi Vampiri" e "Ho Freddo".
Manfredi si conquisterà presto la fiducia del patron della casa editrice, tanto da dare vita al suo primo personaggio tre anni dopo. La serie, 'Magico Vento', si inserisce nella ricca tradizione western bonelliana ma la rilegge alla radice, con un'alternanza sorprendentemente efficace di atmosfere fantastiche ed elementi più tradizionali e la consueta attenzione per la cultura dei nativi americani e la questione indiana, risalente già alle prime storie di Tex Willer (che negli anni '50 combatteva a fianco dei Navajos mentre al cinema John Wayne li massacrava), qui approfondita come non era mai avvenuto.
Il protagonista è un ex militare, Ned Ellis, che viene salvato dalla morte da uno sciamano Lakota, che gli trasmetterà la sua conoscenza e il suo ruolo nella tribù. L'abilità di Manfredi nel combinare diversi registri stilistici tocca qua il suo apice: nelle sue avventure Magico Vento si confronterà sia con personaggi storici come Toro Seduto, Nuvola Rossa e il Generale Custer che, nelle storie dalla matrice maggiormente orrorifica, i demoni della tradizione indiana come il Wendigo e addirittura dei Grandi Antichi sul modello lovecraftiano.
La serie si interromperà nel 2010, quando Manfredi aveva già dato vita a un nuovo personaggio, quel "Volto Nascosto" che segnerà un'autentica svolta nella filosofia editoriale della casa editrice. In primo luogo la serie parte sin dall'inizio come un ciclo autoconclusivo di pochi numeri (formula che verrà in seguito replicata con successo con testate quali "Caravan" e "Dix"), in secondo luogo per l'inedita ambientazione italiana. Ambientata alla fine dell'800, la collana racconta infatti la prima guerra coloniale italiana, tra la Roma umbertina e i deserti dell'Abissinia, dove il giovane capitolino Ugo Pastore parte alla ricerca dell'amico scomparso in battaglia, il dannunziano ufficiale Vittorio De Cesari, e incrocerà il suo destino con quello di un misterioso profeta guerriero, diventato il braccio destro della regina Taitù. La sua enigmatica maschera d'argento è tornata a risplendere oggi nella Cina della rivolta dei Boxer, sulle pagine di Shanghai Devil.
di Francesco Russo
"SHANGHAI DEVIL": AVVENTURE NELLA CINA DEI BOXER
Un giovane romano alla scoperta della Cina della Rivolta dei Boxer. Un avventuriero milanese dalla dubbia moralità. Un timido attore cinese, ignaro che il ruolo da eroe interpretato sul palcoscenico gli tornerà presto utile nella vita reale. Una "ragazza perduta", finita dalle immense campagne dell'Impero di Mezzo ai bordelli di Shanghai. E poi ancora: affascinanti spie inglesi, imperatrici vedove che manovrano nell'ombra per la successione, trafficanti d'oppio, militari occidentali CONTINUA
La miniserie è stata presentata giovedì 8 dicembre all'Istituto Italiano di Cultura di Pechino alle 18, in collaborazione con AgiChina24.
SCHEDA STORICA - ITALIANI AI TEMPI DELLE RIVOLTE DEI BOXER
Siamo a cavallo tra l'800 e il '900 e la Cina è ormai un territorio aperto agli occidentali con la forza in seguito alle guerre dell'Oppio contro l'Inghilterra (la prima dal 1839 al 1842, la seconda dal 1856 al 1860). Un territorio che diventa allettante per tutte le potenze occidentali che giocano un estenuante gioco di equilibri in Europa e che sono animate dai più saldi principi imperialisti. Si comincia a pensare al Celeste Impero come fonte di ricchezza, come un territorio da sfruttare.
La politica della Porta Aperta sistematizzata ad hoc dal Segretario di stato statunitense John Hay, garantisce l'integrità territoriale e la sovranità dell'impero, ma allo stesso tempo permette a tutte le potenze occidentali di sfruttare questo immenso mercato senza che nessuna ne abbia l'esclusiva. Gli italiani sono lì a cercare di tirare un po' la coperta dalla loro parte.
A partire dal 1866 l'Italia riesce a ottenere una rappresentanza diplomatica nel quartiere delle legazioni a Pechino e la possibilità di avere accesso commerciale ai porti aperti, avendo così garantiti per sé alcuni privilegi già concessi precedentemente ad altre potenze.
In Cina in quel periodo ci sono tutti: inglesi, tedeschi, italiani, francesi, austriaci, belgi, russi e giapponesi. E ancora: commercianti, missionari, soldati e avventurieri, marinai e diplomatici. Ci sono per esempio Achille Riva e Teresa Barbaran Capra, mercanti di origine lombarda, trasferiti a Shanghai dal 1880 per commerciare la seta. Nel 1896 avranno in Cina un figlio, Antonio Riva, l'aviatore italiano condannato a morte a Pechino nel 1951 perché accusato di far parte di una cospirazione internazionale che progettava di attentare alla vita del Presidente Mao.
Ma tornando alla fine dell'800, la Cina vive il peso dell'inferiorità culturale e militare messa in rilievo dagli evidenti insuccessi che ottiene sia sul piano militare che diplomatico. La frustrazione, risultato anche dalle pressioni latenti ma palpabili che le diverse potenze esercitano sul suo territorio, sfocia in quella che Gianfranco Manfredi, autore di "Shanghai Devil" - fumetto uscito l'8 ottobre scorso in edicola edito da Bonelli e ambientato in quegli anni - definisce la vera Prima guerra mondiale per il coinvolgimento internazionale: la rivolta dei Boxer, divampata tra il 1899 e il 1901.
Si tratta di un movimento nato in alcune regioni settentrionali della Cina tra le classi più umili, animate da un forte sentimento xenofobo e anti-imperialista. Il nome Boxer è stato coniato in Occidente perché i ribelli non usavano alcuna arma da fuoco, ma solo le arti marziali, credendo che i loro amuleti e le loro abilità li avrebbero resi invulnerabili alle armi occidentali. Esistono tante fonti che li descrivono, e alcune sono proprio i reportage di prima mano, le lettere che i militari scrivono ai loro cari in patria. È il caso di quella che un italiano un po' particolare, perché friulano e quindi all'epoca arruolato nella Marina Austro-asburgica, invia al "Giornaletto di Pola" - lettera citata da Giorgio Milocco nel suo libro "55 giorni a Pechino (ma più de do ani pasadi per mar)"- in cui descrive i Boxer come comuni cinesi che non portano alcuna divisa o tratto distintivo se non le fasce rosse che stringono i calzoni e le maniche delle camicie alle caviglie e ai polsi.
Ed è sempre tramite i racconti di prima mano e i diari di guerra, che possiamo rileggere quel pezzo di storia. Inizialmente i ribelli agiscono fuori dalla capitale distruggendo le ferrovie, le chiese, incendiando case e uccidendo occidentali legati al clero e cinesi convertiti al cristianesimo. Gli eventi però prendono una svolta nuova quando nel giugno del 1900 i Boxer, appoggiati dall'imperatrice Cixi, arrivano a Pechino e assaltano il quartiere delle legazioni straniere anche con delle rudimentali armi da fuoco. L'assedio durerà 55 giorni e viene descritto nei dettagli da molti degli uomini costretti all'interno delle mura di cinta, come per esempio Luigi de Luca figlio dell'ex ambasciatore Fernando de Luca, impiegato nell'ufficio della Dogana della legazione italiana, che partecipa attivamente alla resistenza.
Dalle sue lettere, pubblicate da lui stesso molti anni dopo sulla rivista "Marco Polo", le dinamiche che emergono sono quelle di una tenace e disperata resistenza. Racconta del ruolo delle donne all'interno della legazione e della loro grinta, della cooperazione tra i vari contingenti internazionali, del fronte unico contro quel nemico che fortunatamente non era consapevole della sprovvedutezza e dell'impreparazione degli uomini dall'altra parte del muro di cinta. Racconta delle ansie e del senso di abbandono a causa del ritardo dei rinforzi dalla vicina città di Tianjin, della fame e degli escamotage per la sopravvivenza, dell'episodio della costruzione del "cannone internazionale" venuto fuori, in un momento disperato, grazie al contributo materiale e ingegneristico di tutte le legazioni.
Ma in Cina in quel periodo c'è anche Luigi Barzini che non è un soldato né un diplomatico, ma un grande giornalista italiano. Professionista diretto, schietto, che durante la sua carriera segue personalmente e sul luogo alcuni tra i principali conflitti armati combattuti all'epoca in Oriente, spesso anche unico inviato straniero in aree remote. Non ha timore di criticare aspramente le modalità di gestione della legazione italiana in Cina e la sua scarsa organizzazione logistica, pur vivendo in un momento in cui in Italia la cronaca assume spesso toni autocelebrativi e di esaltazione coloniale. Si trova in Cina per il Corriere della Sera e ciò gli permette in parte di appagare il suo desiderio di conoscere, raccontare e disegnare il mondo circostante; molte illustrazioni da lui realizzate sono state recentemente raccolte in un volume pubblicato dalla Fondazione Corriere della Sera per rendere noto quel taccuino custodito per anni negli archivi del giornale. Un ritratto molto raffinato del giornalista durante il suo soggiorno cinese viene offerto invece, da Fabio Fattore nel libro "Gli italiani che invasero la Cina. Cronache di guerra 1900-1901".
In Cina durante la guerra dei Boxer c'è anche chi, oltre a servire la patria, vuole fare un'esperienza esotica. È il caso di Eugenio Chiminelli, ufficiale di 30 anni, tenente del genio navale. Si aggira in perlustrazioni avventurose per prendere nota di tutto senza avvertire il rischio delle circostanze. Pubblicherà un libro sotto forma di diario e lettere in cui racconterà le sue avventure in toni spesso romantici.
E ancora, ci sono i civili che si rimboccano le maniche per dare il loro contributo, come Livio Caetani dei duchi di Sermoneta. Fabio Fattore lo descrive come un eroe per caso, giunto in Cina nel 1899 a neanche 27 anni. Si unisce ai marinai per respingere il nemico nonostante la salute cagionevole e l'inesperienza militare. Riuscirà a conquistare la fiducia dei superiori dando un contributo nell'organizzazione e nella logistica delle azioni militari. Sono anche presenti figure completamente diverse da quelle descritte e a volte controverse, come i primi affaristi che si danno da fare in territorio cinese mettendo le mani sulla spinosa questione delle ferrovie e dei giacimenti di materie prime. Uno è Angelo Luzzati (passato alla storia come Luzzatti per creare un riferimento forzato con l'uomo d'affari Luigi Luzzatti) che, in qualità di agente del consorzio anglo-italiano Pekin Syndacate, riesce nel 1897 ad ottenere ampie concessioni dalla Cina sui diritti sulle miniere di ferro e carbone e su un consistente pezzo di ferrovie.
C'è chi invece conclusa la guerra decide di restare. E' il caso di Virginio Chieri che, assunto come funzionario delle Poste e Dogane Cinesi, nel 1904 viene raggiunto dalla fidanzata Luisa Fabbri a Pechino con la quale vivrà in Cina una vita intensa insieme ai quattro figli. La storia è raccontata nel libro "Pechino-Bassano del Grappa. Storia di una famiglia italiana in Cina nella prima metà del Ventesimo secolo", scritto dalla nipote della coppia Marina Giusti del Giardino grazie alle testimonianze fotografiche e scritte lasciatele in eredità.
La storia degli italiani in Cina andrà avanti fino ai giorni nostri arricchendosi di episodi spesso dimenticati, ma che hanno lasciato un'impronta significativa, come la concessione ottenuta dal governo dell'epoca nella città di Tianjin in seguito alla rivolta dei Boxer, che costrinse i cinesi a subire ulteriori compromessi e umiliazioni. Quel piccolo distretto italiano ancora oggi è il fiore all'occhiello della città e per i cinesi è il simbolo tangente della qualità e della bellezza del made in italy. Fino alla Seconda Guerra Mondiale è stato un luogo di intensi incontri culturali tra cinesi e italiani, costellati di storie e racconti anche questi andati perduti nel tempo.
di Bianca Lazzaro
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