Shanghai, 11 feb. - Qualche settimana fa il frequentatissimo blog delle "Shanghai Mamas", messe per un attimo da parte le disperate richieste di aiuto per la rinite allergica dei pargoli e superati i drammi esistenziali per la scarsità di autisti in grado di svolgere propriamente le loro mansioni, si è fatto infuocato. A rendere bollenti le tranquille giornate delle "mamas" - così si fanno chiamare in modo minaccioso madri e mogli espatriate in Cina che si incontrano su questa utilissima piattaforma per darsi consigli e condividere informazioni - un editoriale apparso sul Wall Street Journal (questo articolo). A firma della sconosciuta Amy Chua, docente di legge a Yale, cinese di seconda generazione e madre orgogliosa di due geniali ragazze ormai adolescenti, l'articolo illustra senza mezzi termini e con dovizia di particolari il personalissimo modello educativo della signora, bollato come tradizionalmente "cinese", evidenziandone i fondamenti culturali e illustrandone gli indubbi vantaggi rispetto al lassismo del sistema occidentale.
Pur tentando di evitare generalizzazioni, Amy Chua si fa prendere la mano e alla fine il tutto suona come l'ennesimo avvertimento al pigro occidente: il modello educativo e famigliare cinese sta per produrre qualcosa di veramente esplosivo, e non dite che non vi abbiamo avvertito.
In effetti i sorprendenti risultati registrati dagli studenti cinesi allorché vengono messi a competere con i coetanei del resto del mondo (vedi ad esempio i risultati del PISA, un'indagine sul livello di istruzione degli adolescenti nei principali paesi industrializzati promossa dall'OCSE), le brillanti performance accademiche della transumanza umana che dalla Cina muove verso le più prestigiose università del mondo e le eccellenze in campo musicale oltre a quelle sportive, una pulce nell'orecchio l'avrebbero già dovuta mettere e da tempo.
Tornando all'articolo, a parte la pretesa di Amy Chua di identificare le proprie - a volte davvero bizzarre - scelte educative con un supposto modello orientale e cinese in particolare, il tutto pare alquanto sospetto. A una persona dotata di ordinario buon senso e di un pizzico di ironia, l'articolo non può che suonare come una provocazione. Trattasi di una lista di proibizioni e vessazioni di vario genere e natura imposte alle povere ragazze Chua in virtù del fatto che i genitori "sanno sempre quello che è meglio per i propri figli" e che i figli altro non sarebbero che piccoli animaletti selvaggi da crescere e plasmare secondo i propri valori (il che è in parte condivisibile, ammettiamolo). Quel che stona in tutto questo è la mancanza di ragionevoli dubbi sull'utilità di tale metodo e la totale assenza di interesse per le conseguenze. A dirla in termini economici un sistema vincente nel breve e medio termine ma dalle esternalità ancora da dimostrare. A sottolineare la forzatura è il ritratto di famiglia che accompagna il testo, una foto che pare la parodia della "Famiglia Addams", più che la campagna di marketing che vorrebbe essere.
Ma al momento di senso dell'umorismo ce ne deve essere davvero poco in giro, se l'articolo incriminato è rimbalzato sul web, sollevando un polverone globale e la sua eco è arrivata sui principali organi di stampa occidentali e non, ritagliandosi uno spazio anche sui media nostrani, impegnati in ben altri affari. Il caso della "Tiger mummy", la mamma tigre come si definisce l'autrice, ha innescato quel misterioso meccanismo che vede persone, generalmente sensate, discutere di un libro senza averlo ancora letto. Ne sono venuti fuori chilometri di pagine web di critiche e accuse ma sopratutto di giovani e meno giovani di origine cinese raccontano la loro infanzia sino-americana, in bilico tra due culture, ricordando dolori e drammi famigliari.
Poco importa se di li a poco si è venuto a scoprire che l'articolo non sarebbe altro che il frutto di una ben orchestrata strategia di marketing in vista del lancio editoriale, che la stessa Amy Chua si sia detta estranea al sunto prodotto dal Wall Street Journal e, fatto ancor più rilevante, che i pochi che hanno in effetti letto il libro giurano che non sia niente male e che anzi si tratterebbe di un racconto interessante e argomentato delle difficoltà di crescere dei figli in bilico tra due culture, il tutto condito da un buon senso dell'umorismo, finalmente !
Il dado è ormai tratto e se si deve ringraziare Amy Chua di qualcosa (lei da parte sua ringrazia giacché il suo libro è nel frattempo schizzato al quinto posto dei best seller del New York Times) è di avere contribuito a sollevare il caso di uno tra i tanti modelli educativi alternativi a quello mainstream occidentale, con i quali saremo presto o tardi costretti a fare i conti, o già li stiamo facendo.
Certo, assumere che la propria personale esperienza rappresenti la generalizzazione di una cultura ampia e complessa come quella cinese pare davvero una pretesa eccessiva. Eppure è innegabile che esistano codici e norme di condotta, pratiche formalizzate o non, sensibilità e simbolismi prettamente connaturati al fatto di nascere cinesi, italiani, neozelandesi ecc. Tali bagagli, seppure insaporiti dal flusso e riflusso continuo a cui la globalizzazione ci espone, continuano ad avere un senso, per fortuna. Partire da questo può aiutare ad acquisire maggiore coscienza di quello che è un paese, la sua cultura e le sue persone e mentre la sino-mania si fa prendere la mano e si produce in parodie come la recente satira "Perchè le fidanzate cinesi sono superiori", per le mamme, tigri e non, è tempo di porsi qualche domanda.
Di Nicoletta Ferro
Nicoletta Ferro è Senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei
La rubrica "Lettere dalla Cina" ospita gli interventi di giovani italiani che vivono e lavorano in Cina, offrendo spunti di vita quotidiana e riflessioni originali. Andrea Bernardi, Corrado Gotti Tedeschi, Elisa Ferrero e Gianluca Morgese.
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