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Non poteva essere altrimenti. Lo sganciamento non era un piacere a Washington, che da anni chiede invano una rivalutazione: era un favore a Pechino. Solo ed esclusivamente ragioni interne hanno spinto il partito comunista a far muovere di nuovo il cambio. La mossa, non a caso, era stata prima preparata e poi accompagnata da una serie di articoli, tecnici e politici insieme, del vicegovernatore della Banca del Popolo, Hu Xiaolian: la signora del cambio cinese aveva dovuto affrontare e rintuzzare le mille obiezioni "domestiche" a un rialzo dello yuan che ha avuto e avrà importanti conseguenze redistributive.
Pechino non voleva infatti ridurre le esportazioni - non avrebbe avuto senso - ma stimolare la domanda interna, per ragioni politico-sociali ed economiche al tempo stesso. L'apprezzamento della valuta non ha certo reso meno competitive le merci cinesi: la stragrande maggioranza dei listini degli esportatori sono direttamente espressi in dollari, e una rivalutazione dello yuan colpisce soprattutto, se non esclusivamente, i loro margini. Nell'ultimo anno (i dati sono di maggio) i prezzi delle importazioni cinesi negli Usa sono così aumentati del solo 2,8 per cento.
L'intento di Pechino, spiegò Hu, era ed è quello di riequilibrare la crescita dei settori tradable, quelli soggetti alla concorrenza internazionale, verso i settori non-tradable, i servizi innanzitutto, spostando le risorse da un comparto all'altro e rendendo il Paese meno dipendente dalla domanda globale.
L'adeguatezza dell'apprezzamento del cambio, allora, non va valutata tanto guardando alla riduzione del surplus cinese - che non era un obiettivo della politica di Pechino e che subisce anche i rincari delle materie prime importate - ma ad altri fattori economici, tutti interni. E non occorre scendere in profondità: basta guardare all'andamento dell'inflazione.
Il motivo è semplice: se un cambio non si apprezza abbastanza, allora sono prezzi e salari a salire al suo posto. Più lentamente, ma in modo inesorabile. Molti fattori sono in gioco - anche, per esempio, l'adeguamento ritardato degli stipendi ai guadagni di produttività - e non tutto è riconducibile al cambio ancora troppo fermo, ma il surriscaldamento dell'economia è evidente. Il cambio "basso" ha reso espansive le condizioni monetarie, mentre la necessità di creare "dal nulla" nuovi yuan per evitarne l'apprezzamento ha messo in circolo una quantità di denaro eccessiva: i drenaggi (le "sterilizzazioni") che sono state compiuti non sono e non potevano essere perfetti. Il rialzo dei prezzi era inevitabile, ed è una spia accesa che segnala quanto sia stato inadeguato il rialzo dello yuan. La dinamica dei prezzi ha superato il 5%, mentre sul settore immobiliare si è rischiata la bolla.
Cosa succederà nel futuro? Hu ha disegnato uno scenario di medio-periodo abbastanza preciso che - l'anno scorso - sembrava poco verosimile. Oggi, però, dopo un apprezzamento dello yuan comunque superiore alle attese e la fiammata dell'inflazione, quelle parole meritano maggiore attenzione: la Cina ha bisogno di un cambio ancora più forte per frenare l'inflazione, per acquistare a prezzi più convenienti le materie prima da importare, e per stimolare la domanda interna.
La prossima rivoluzione - non facile, forse non immediata - sarà allora l'adozione di un cambio strisciante non più verso il dollaro, ma verso un paniere di valute. Nelle segrete stanze della Banca del Popolo qualcosa del genere già avviene: è il cambio effettivo, quello calcolato verso le monete dei principali partner, a essere preso in considerazione; e non potrebbe essere altrimenti, sul piano dell'analisi degli effetti della politica monetaria e valutaria. La svolta, allora, sarà quella di rendere esplicito questi parametri: «In futuro - ha annunciato Hu Xiaolian - sarà valutata (l'opportunità di) pubblicare informazioni sul cambio nominale effettivo su base regolare e di spostare l'attenzione del pubblico dal renminbi/dollaro al cambio effettivo che è il vero riferimento dei suoi movimenti».
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A pagina 47
Corsa alle emissioni in yuan
22/06/2011
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