Lo yuan debole non serve più
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Lo yuan debole non serve più

Lo yuan debole non serve più

LE MOSSE DELLA CINA
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Forse nei prossimi mesi il Governo cinese lascerà che lo yuan si rivaluti rispetto al dollaro più di quanto non abbia fatto l'anno scorso. Durante la crisi Pechino aveva congelato il tasso di cambio; dall'estate 2010 ha lasciato che la moneta si rivalutasse. Negli ultimi 12 mesi, lo yuan si è rafforzato del 6% rispetto al dollaro.
Una rivalutazione più rapida limiterebbe l'export e incrementerebbe l'import del Paese asiatico. E consentirebbe ad altri Stati dell'area di lasciar rivalutare le loro monete o potenziare le esportazioni a spese di Pechino. La cosa potrà far piacere ai vicini, ma non ai produttori cinesi. E allora perché le autorità di Pechino stanno consentendo questa rapida rivalutazione dello yuan? Le ragioni fondamentali di questa scelta sono due: ridurre il livello di rischio del portafoglio titoli e contenere l'inflazione. Partiamo dai timori delle autorità rispetto ai rischi legati alle riserve di titoli esteri detenuti da Pechino, 3mila miliardi in obbligazioni in dollari e altri titoli esteri, che espongono la Cina a due pericoli.

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Il Governo di Pechino è spaventato dall'incremento dell'inflazione negli Stati Uniti e in Europa e da una rapida svalutazione del dollaro rispetto all'euro e alle altre valute.
Un'impennata dell'inflazione in America o Europa ridurrebbe il valore d'acquisto delle obbligazioni in dollari o in euro. I cinesi avrebbero la stessa quantità di dollari o di euro, ma ci potrebbero comprare meno cose sui mercati mondiali.
Anche se non ci fosse alcun incremento dell'inflazione, un calo marcato del dollaro ridurrebbe il valore del biglietto verde per l'acquisto di prodotti europei e di altri Paesi. I cinesi hanno ragione di preoccuparsi, considerando che nell'ultimo anno il dollaro ha perso il 10% del valore sull'euro, e molto di più rispetto alle altre monete.
L'unico modo per ridurre questi rischi per la Cina è ridurre la quantità di titoli in valuta estera posseduti. Ma la Cina non può ridurre il volume di questi titoli finché mantiene un forte surplus nel saldo con l'estero (quasi 300 miliardi di dollari, da aggiungere alle riserve di titoli in dollari, euro e altre valute).
La seconda ragione che spinge i leader cinesi a lasciar rafforzare lo yuan è la volontà di ridurre l'inflazione interna. Uno yuan più forte fa scendere il prezzo dei prodotti importati dai consumatori e dalle imprese cinesi. Un barile di petrolio continuerà a costare 90 dollari, ma se la moneta cinese si rivaluterà del 10% rispetto al dollaro, il barile in yuan costerà il 10% in meno.
Ridurre il costo delle importazioni è rilevante perché la Cina ora importa un ventaglio più ampio di beni di consumo, attrezzature e materie prime: l'import annuo totale della Cina è di 1.400 miliardi di dollari, quasi il 40% del Pil.
Uno yuan più forte ridurrebbe anche la pressione della domanda, in maniera più efficace dell'attuale politica di incrementare i tassi di interesse. Tutto questo rivestirà ancora più importanza in futuro, quando la Cina attuerà il piano per potenziare la spesa interna, specialmente da parte delle famiglie. Uno degli obbiettivi del XII piano quinquennale, appena presentato, è quello di incrementare il reddito delle famiglie e la spesa per i consumi a un ritmo più rapido di quello della crescita del Pil.
Una crescita più sostenuta della spesa delle famiglie abbinata all'attuale livello di esportazioni provocherà intasamenti nella produzione e metterà a dura prova la capacità produttiva, determinando incrementi più rapidi dei prezzi dei beni di produzione nazionale. Per creare le condizioni per un incremento della spesa per i consumi bisogna ridurre il livello delle esportazioni, consentendo la rivalutazione dello yuan.
Guardando al 2010, l'incremento del 6% nel cambio yuan-dollaro non dà conto fino in fondo dell'aumento del costo relativo dei prodotti cinesi per i consumatori americani, per via del diverso tasso di inflazione. I prezzi al consumo in Cina sono aumentati del 6,5% nel 2010, contro il 3,5% degli Usa. Questi tre punti percentuali di differenza significano che il tasso di cambio «reale» yuan-dollaro, corretto in base all'inflazione, lo scorso anno è cresciuto del 9% (6% di rivalutazione nominale più 3% di differenza nell'inflazione).
È così che gli Stati calcolano il tasso di cambio reale, ma in questo caso è fuorviante, perché l'inflazione cinese è originata in buona parte dall'incremento dei prezzi delle case, dei prodotti ortofrutticoli locali e di altri beni non scambiabili. I prezzi in yuan dei prodotti di fabbricazione cinese esportati negli Usa potrebbero non essere aumentati affatto.
Naturalmente, non è solo il cambio yuan-dollaro a incidere sulla competitività commerciale cinese. Se lo yuan è cresciuto rispetto al dollaro, il dollaro è calato rispetto ad altre valute. Il 10% perso dal biglietto verde contro l'euro negli ultimi 12 mesi significa che la valuta cinese ha perso il 4% rispetto alla moneta europea. Il franco svizzero è cresciuto di oltre il 40% rispetto al dollaro, e dunque di oltre il 30% rispetto allo yuan. Prendendo in considerazione i Paesi con cui commercia la Cina probabilmente si riscontrerebbe che il valore complessivo della moneta cinese negli ultimi 12 mesi è sceso.
Il dollaro probabilmente continuerà a perdere valore rispetto all'euro e alle altre valute nei prossimi anni: così i cinesi potranno lasciar rivalutare sostanziosamente lo yuan nei confronti del biglietto verde, se vorranno incrementare il valore globale di quest'ultimo per ridurre il livello di rischio del loro portafoglio titoli e tenere a freno le pressioni inflazionistiche.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© PROJECT SYNDICATE, 2011

26/08/2011
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