Le Pmi a « lezione» di Cina
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Le Pmi a « lezione» di Cina

Le Pmi a « lezione» di Cina

Concorrenza. Al Cei Piemonte convegno su rischi e opportunità
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TORINO. Dal nostro inviato
L'ultima vessazione per chi si è avventurato nel mercato cinese si chiama slamming. In estrema sintesi, l'imprenditore diventa bersaglio di pressanti richieste di registrazione del sito collegato al suo marchio; decine e decine di email e di sms. Salvo poi scoprire che quel marchio, in Cina, è stato già registrato e che per riscattarlo, guarda un pò, è necessario pagare una somma proprio a chi gli ha fatto l'assillante proposta. Di queste e altre ordinarie difficoltà si è parlato ieri in un seminario Ceipiemonte–Unioncamere nazionale–Cdc di Torino. Una cinquantina di Pmi hanno tempestato di domande i protagonisti dell'incontro: come faccio a decidere se sottoscrivere una joint venture con il mio partner locale se poi questo mi sfila da sotto i piedi il business? Esistono sgravi fiscali se registro il marchio a livello europeo prima di andare in Cina? Dove posso bussare per registrare lo stesso marchio in Cina? Se registro il mio software devo registrare anche la fonte? Sono alcune delle richieste girate agli addetti ai lavori. Alessandro Barberis presidente della camera torinese e di Eurochambres crede nella Cina, tanto che negli ultimi anni ci va spesso, accompagnando le aziende non solo italiane, però ammonisce: «Bisogna attrezzarsi, questo nostro progetto risponde all'esigenza di formare nuovi funzionari delle camere, ma anche di raccogliere suggerimenti dal basso, dalle aziende, specie piccole e medie». Gli fa eco Dirk Vantyghem, direttore affari internazionali di Eurochambres: «Sta cambiando la prospettiva: oggi vogliamo che sia utile a noi, il contatto con i cinesi e non solo viceversa». Passano in rassegna casi eccellenti di imprese italiane che l'hanno spuntata sui concorrenti asiatici, Ferrero, ad esempio, con i suoi Rocher vittoriosi rispetto ai cinesi Tresor Dorè, ma anche un'altra gloria torinese, Urmet. In Cina è facile imbattersi in citofoni Urmet, sì sono proprio quelli made in Italy «ma che fatica – racconta Carlo Spadonari, l'ingegnere che ha seguito la contesa con i concorrenti cinesi – dal 2001 a oggi è stata una battaglia molto aspra, il nostro fornitore cinese è stato il nostro più acerrimo nemico: aveva registrato il marchio e sosteneva che a copiare eravamo noi».
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23/11/2010
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