Le misteriose regine del trading

Il merger dell'anno è ancora appeso agli incerti umori degli azionisti. Ma se i termini della fusione da 90 miliardi di euro fra Glencore, la seconda trading house del mondo, e Xstrata, un colosso minerario, potranno forse essere rivisti, nessuno dubita che i rispettivi amministratori delegati – Ivan Glasenberg e Mick Davis, entrambi sudafricani – abbiano la ferma intenzione di condurre in porto il mega-affare. Gli azionisti di Xstrata contestano il prezzo, giudicato troppo basso. «Dobbiamo agire in fretta – ha detto Davis ai grandi soci, durante una riunione alla City di Londra – perché dovremmo perdere questa opportunità?».
L'opportunità è quella di diventare giganti in un momento in cui la fame planetaria di materie prime, dopo aver già regalato un decennio d'oro ai grandi trader, promette un'altra lunga galoppata sulle praterie della globalizzazione. Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia, il fabbisogno di carburanti per il trasporto aumenterà dell'80%, da qui a fine secolo. Secondo la Fao, la produzione alimentare dovrà crescere del 70%. E le incertezze che punteggiano il mondo sono sempre lì pronte ad offrire quel che agognano i grandi trader: la volatilità dei prezzi, il sale e il pepe della speculazione. Anche se nel 2011, questo va detto, i profitti di alcuni (inclusa Glencore) sono scivolati.
Questi gruppi, tutti dotati di potenti trading desk, ma anche di magazzini, flotte e stabilimenti sparsi per il mondo, sono grandi per davvero. Glencore controlla il 55% dello zinco e il 36% del rame mondiale. Nel 2010, Vitol e Trafigura – due trading house con sede in Svizzera – hanno venduto mediamente 8 milioni di barili di petrolio al giorno, più delle esportazioni dell'Arabia Saudita. E le cosiddette ABCD – ovvero le americane Adm, Bunge, Cargill e la francese Dreyfus – tengono in pugno le commodities alimentari: controllano fra il 75 e il 90% dei cereali mondiali.
Secondo i calcoli della Reuters, nel 2010 le prime dodici trading house del mondo hanno fatturato mille miliardi di dollari, dopo quasi dieci anni di crescita, spinta dai consumi di Cina, India e Brasile. «La maggior parte dei trader prende il prezzo che trova», commenta Chris Hinde, direttore della rivista Mining Journal. «Ma le grandi trading house hanno la capacità di fare il prezzo. E questo le mette in un'invidiabile posizione di forza».
Della Glencore si è saputo qualcosa dallo scorso maggio, quando la compagnia – sin lì poco incline alla trasparenza – ha aperto le porte e i libri quotandosi a Londra e regalando nottetempo 10 miliardi a Glansenberg. Ma se i nomi di questi colossi non sono noti al grande pubblico come ExxonMobil o Nestlè, non è tanto per la lontananza dai consumatori finali. Quanto per una deliberata scelta di segretezza. «Prima di portare la mia azienda in Borsa, devono camminare sul mio cadavere», ha dichiarato più volte Charles Koch, che col fratello David controlla la quasi centenaria Koch Industries.
Forse il caso-limite è la Cargill, che se ne sta arroccata in una gigantesca villa di mattoni, dentro una foresta a un'ora di macchina da Minneapolis. In quasi 150 anni di storia, la famiglia Cargill ha trasformato un magazzino di granaglie in un gigante alimentare sul quale non tramonta mai il sole: con un giro d'affari di 108 miliardi di dollari, sarebbe fra le prime 15 aziende dell'indice Fortune 500. Se solo fosse quotata.
La Adm, meglio nota come Archer Daniels Midland, è quotata e, come un po' tutte le sue sorelle, è finita più volte sotto la lente dell'opinione pubblica e della magistratura. Solitamente i motivi sono due: operazioni di cartello o l'impatto sociale e ambientale delle loro attività. Il film «The Informant», con Matt Damon, racconta la vera storia di un illecito fixing dei prezzi da parte di Adm. E la solita Cargill, tanto per fare un esempio, è finita sotto accusa per l'eccessivo zelo nel trasformare la foresta pluviale brasiliana in campi di soia.
Tutte quante, peraltro, prediligono abitare in Paesi dove la tassazione è favorevole. Vitol, Glencore, Gunvor, Trafigura e Mercuria sono in Svizzera. Le americane hanno sede in Stati diversi, ma quella sociale è – guarda caso – nel Delaware. E anche la Louis Dreyfus ha sede a Parigi, ma fa trading dalla Svizzera e dall'Olanda.
Di fatto, grazie alla loro potenza operativa, le trading house hanno anche un peso geopolitico. Basta prendere la Vitol che, per essere un'azienda che maneggia 5,5 milioni di barili di petrolio al giorno, è sconosciuta al largo pubblico. Ma è stata proprio lei a organizzare l'acquisto di un milione di barili di petrolio libico dai ribelli anti-Gheddafi, lo scorso aprile. Operazione rischiosa e ai limiti della legalità, ma appoggiata dalla Casa Bianca.
Di sicuro, per stare in questo business bisogna avere un certo acume geopolitico. Ma anche profonda conoscenza del mercato delle commodities, e non solo perché l'insider trading (lo scambio di informazioni riservate) gode per così dire di un trattamento speciale. Bello è il caso del 2009 quando, in un certo momento, il prezzo per la consegna futura risultava più alto di quello da consegnare subito. E Koch, Vitol e altri pensarono bene di parcheggiare 100 milioni di barili di petrolio nei loro tanker, vendere future, aspettare e fare soldi: 10 dollari in più a barile.
Il peso strategico è tale che viene da chiedersi dove siano i cinesi, in questa storia. E la risposta, come sempre, è: stanno arrivando. La Repubblica Popolare ha investito nella Noble, una trading house di Hong Kong che in pochi anni è entrata fra le prime dieci al mondo. Ma anche Wilmar, Olam e Hin Leong, tutte e tre con base a Singapore, stanno emergendo grazie agli affari con la Cina. Così, tutti danno per scontato che è solo questione di tempo: la Cina scalerà anche queste vette.
Magari è per questo, che la fusione Glencore-Xstrata (già ribattezzata Glenstrata) è «un'opportunità» da cogliere in fretta: la corsa al gigantismo, serve ad occupare spazi competitivi, in un business dove l'opacità e la segretezza sono tanto utili quanto la spregiudicatezza.
Il papà di tutti i trader si chiama Marc Rich, fondatore della Marc Rich & Co. a Ginevra e maestro dei mercati delle commodities. Fino al punto di finire condannato per evasione fiscale e per aver comprato petrolio iraniano durante la crisi degli ostaggi americani. Mai tornato in patria, è stato perdonato da Bill Clinton nell'ultimo suo giorno di presidenza. Oggi la Marc Rich & Co., dopo un management buyout, si chiama Glencore. Già proprietaria del 35% di Xstrata, vuole incorporarla per diventare grande. Forse troppo: Eurofer, la confederazione europea dell'acciaio, ha detto venerdì di temere Glenstrata perché «potrebbe danneggiare la competizione sui mercati dello zinco, del nickel e del carbone».
Di sicuro, il processo di concentrazione andrà avanti. Sul mercato gira voce che la Gunvor, altra misteriosa società svizzera di proprietà di Gennady Timchenko (talmente vicino a Vladimir Putin da lasciare il sospetto che l'uomo forte della Russia sia nell'azionariato), sarebbe in vendita. Se così fosse, saranno i giganti a spartirsela.
Per il resto, il ristretto club da mille miliardi continuerà a far girare di nascosto il mondo: dai cereali della colazione, alla bistecca del pranzo; dall'accensione dell'automobile al tepore del riscaldamento. Fino alla prossima crisi dei prezzi (come quelli del cibo nel 2007 e quelli del petrolio nel 2008) in cui tutti devono dare la colpa a qualcuno. A cominciare dagli speculatori.
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19/02/2012