La voglia di Dagong di bocciare gli Usa
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La voglia di Dagong di bocciare gli Usa

La voglia di Dagong di bocciare gli Usa

La metodologia cinese
di lettura
TOKYO. Dal nostro inviato
«Si scrive Dagong o Dugong?». L'ironia del funzionario del ministero delle finanze giapponese traccia un parallelo tra l'agenzia di rating cinese Dagong global credit rating e lo strano e rarissimo animale marino chiamato dugong. Vuole indicare che entrambi sono specie ibride, assurti a notorietà sulla stampa occidentale e connotati politicamente. Il dugong era diventato una bandiera degli ambientalisti che si oppongono alla costruzione di un nuovo aeroporto per i Marines a Okinawa, in un'area frequentata da qualche decina di esemplari del mammifero. Dagong è l'agenzia cinese – privata ma sorta nel 1994 con l'appoggio delle autorità – che già lunedì o martedì prossimo – magari anticipando la mossa di Standard & Poor's sulla tripla A – potrebbe abbassare ulteriormente il rating sovrano Usa, che già considera inferiore a quello della Cina e di oltre una decina di altri paesi.
Off the records, il funzionario giapponese mostra stupore per i cenni di clamore mediatico sulle mosse di un istituto che, a suo parere, vanno seguite con attenzione più che altro come indicatore degli umori nelle alte sfere a Pechino. Ma anche lui ha preso nota di uno sviluppo che segnala la possibilità di una crescente influenza finanziaria cinese nel Sud-est asiatico su un versante nuovo: la cerimonia di alcuni giorni fa a Pechino con cui una grande banca malese, Cimb, è diventata la prima dell'area Asean a cercare e ottenere un rating Dagong, con tanto di dichiarazioni del ceo Nazir Razak che sottolineano la necessità che si affermi una agenzia di rating asiatica alternativa alle tre grandi occidentali.
Un segnale che la Dagong ormai non va presa sottogamba. Solo un anno dopo l'uscita allo scoperto sul piano internazionale del luglio 2010 la Dagong ha potuto nei giorni scorsi autocelebrarsi come la società che sta già spezzando il monopolio occidentale nel settore con un «contributo fondamentale al sistema globale di credit rating», dicendosi spronata dai riconoscimenti e dalle preoccupazioni internazionali nella sua «nuova missione piena di glorie e di responsabilità». Su 67 paesi e regioni che oggi copre, Dagong in 11 casi assegna un rating più alto di quelli di Moody's, S&P's e Fitch – in sostanza paesi emergenti – e in 23 casi (per lo più riguardanti paesi avanzati) assegna un voto più basso: una differenza di valutazione, insomma, in più della metà del totale. Le ricorrenti tirate anti-americane del presidente Guan Jangzhong trova sempre più eco di fronte allo sconcerto generale – più intenso ancora nell'Asia creditrice – per il braccio di ferro in corso a Washington e il danno già fatto alla credibilità degli States, mentre la sua critica alle agenzie rivali finisce per ricalcare i rilievi negativi già espressi da molti analisti, investitori e politici occidentali dopo la crisi globale del 2008 (la cui genesi è spesso attribuita ai rating di tripla A generosamente distribuiti in precedenza a strumenti finanziari complessi, mentre i successivi downgrading a raffica avrebbero aggravato il conseguente marasma, come starebbe ora succedendo per il debito sovrano europeo).
Anche negli ambienti del Ministero delle Finanze di Tokyo la reputazione delle grandi agenzie appare piuttosto bassa, salvata solo dalla considerazione che l'attuale minaccia di downgrading sul Giappone rappresenta un salutare "gaiatsu" (pressione esterna) sulla politica domestica in favore di un maggior rigore fiscale.
Per quante invettive sui "concorrenti" possa lanciare il signor Guan, del resto, di peggio ha già più volte detto l'autorevole capo economista del Nomura Research Institute, Richard Koo, secondo cui la questione di quest'anno è «se le agenzie di rating avranno successo nel distruggere ancora una volta l'economia globale» dopo non aver nemmeno fatto un minimo atto di contrizione per il loro ruolo nella crisi del 2008-09.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

31/07/2011
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