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AL FILOSOFO CINESE Lao Tse È ATTRIBUITA LA SCRITTURA DEL TAO TE CHING E LA NASCITA DEL TAOISMO
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A partire dalla lingua le differenze tra tradizione cinese ed europea sono tante. Nella filosofia cinese non c'è il rapporto tra scrittura e parola, ma una distinzione netta tra lingua scritta e parlata. La scrittura ha un suo corso, un suo sviluppo e non ha nulla a che fare con la parola. Il cinese scritto si basa prevalentemente su caratteri, morfemi, che sono indipendenti dal cambiamento fonetico. Inoltre, nella cultura cinese non si coniugano i verbi. Se in Occidente distinguiamo tra presente, passato e futuro nella lingua cinese non c'è una distinzione del tempo strutturata come la nostra. «È una lingua dove si parla di paratassi – dice Jullien –, perché non c'è sintassi, non c'è grammatica. Per i cinesi il futuro è qualcosa che si lega al presente proprio perché non c'è distinzione netta tra le coniugazioni. Siamo noi che cerchiamo in qualche modo di proiettarci nel futuro, per riuscire a vedere cosa succederà. Loro danno un'idea di passato, presente e futuro, ma lo fanno creando un senso estremamente variabile. Tutto si regge su un rapporto polare, reciproco e dunque sempre reattivo tra i due poli».
Nel libro antico dell'oracolo cinese «I Ching», ad esempio, si vede esattamente cosa s'intende per polarità e immagine di un concetto. In quest'opera, oramai conosciuta anche in Occidente, non c'è logos. Ma si cerca di spiegare il mondo e di come gestire le situazioni attraverso la lettura degli ideogrammi tutti portatori di significato, che sono la rappresentazione in immagini di un concetto. «Il pensiero cinese, a differenza di quello greco, non si è concentrato sull'obiettivo o il compimento ma sull'interesse o il vantaggio. Questo significa che anche in un momento di sconfitta o declino si può trarre vantaggio dalla situazione. Il pensiero cinese, ancora una volta, si distingue da quello greco perché parte dalla situazione piuttosto che dall'io-soggetto. In pratica non sarò più io che pianifico, ma io che scopro dove risiedono il potenziale e le condizioni da sfruttare», spiega Jullien.
L'idea di fondo del libro «I Ching», che significa letteralmente il cambiamento, non è quella di un pronostico ma di una diagnosi a partire dai segni.
«L'arte della diagnosi diventa l'arte del diagramma. Dalle 64 figure, presenti nei "Ching", capiamo che per la tradizione cinese non c'è un inizio e una fine, ma tutto è in transizione. Il mondo viene visto come un processo in continua trasformazione. La trasformazione che non si vede ma che è insita in ogni tratto. Nella parola successo, ad esempio, sono già presenti dei tratti che indicano un inizio di declino, così nella parola declino sono presenti i tratti che indicano l'inizio del successo».
In Cina è solo verso la fine del Diciannovesimo secolo che viene introdotta la scrittura in orizzontale e che sono state tradotte e aggiunte parole come tempo, natura, verità, perché nella lingua cinese all'origine non c'è una prospettiva globale e astratta. Il mondo è visto come la capacità di tenere insieme tutte le cose e la realtà è un susseguirsi di continue trasformazioni. «La Cina non ha sviluppato il pensiero di una forma ideale e di finalità. Il cinese classico non possiede nemmeno un termine chiaro e preciso per indicare l'obiettivo, tanto che per tradurlo dall'occidentale, in epoca moderna, viene utilizzata la combinazione dei termini "occhio" e "bersaglio"».
Il pensiero cinese si è concentrato non sull'obiettivo ma sull'interesse o il vantaggio, dove prevale sempre la logica del processo e della trasformazione. Per i cinesi tutta la realtà di fatto non è che un susseguirsi di trasformazioni. Rilanciando l'idea che l'efficacia è sempre il risultato di un processo in Cina la via è il tao, che non è una via che conduce, ma la via per la quale qualcosa passa. L'immagine europea della via, invece, è legata all'idea di compimento. Secondo François Jullien solo liberandoci del "pensiero unico" europeo possiamo trarre vantaggio da entrambe le culture.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
17/02/2011
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