Pechino, 14 feb. - L'onda lunga della sostenibilità approda nel magico mondo della moda. Se ne parla già da qualche tempo, ma molti stentano ancora a coglierne il nesso, limitandosi a osservare il fenomeno con distacco.
Come dare torto ai diffidenti? In fondo l'accostamento moda/sostenibilità, appare tra i più audaci, e i reciproci legami non così facili da individuare. Per meglio rendere l'idea, mettiamola in questo modo: a meno che al momento non si vesta un capo d'alta sartoria confezionato con tessuti e tinture interamente naturali da un esercito di sarte ben pagate in uno degli ultimi atelier rimasti, la maggior parte di quel che indossiamo quotidianamente è il frutto di diverse fasi di lavorazione che hanno un forte impatto sull'ambiente e sulla forza lavoro. Dalla filatura e tessitura del tessuto, alla tintura e stampa passando per il design, arrivando al finissaggio, il ciclo di produzione di capi d'abbigliamento è talmente intensivo da farne tra i settori a maggior consumo d'acqua e di energia, secondo solo all'agricoltura. Se si pensa che la produzione di cotone, occupa circa il 3% della superficie agricola mondiale, ed è responsabile dell'impiego di una quota pari al 19% di tutti gli insetticidi e del 9% dei pesticidi chimici utilizzati al mondo, le proporzioni risulteranno più chiare. Non è finita, rimane il confezionamento e il packaging dove dispendio di energia e consumo di carta e risorse idriche, per non parlare della "carbon footprint" lasciata dal trasporto e dalla distribuzione, sono notevoli (ne sa qualcosa la multinazionale dell'abbigliamento sportivo, Puma, che si è di recente avviata sulla strada del packaging ecologico). Quanto agli attori della filiera produttiva, per l'industria tessile e delle confezioni la delocalizzazione è un'esigenza; ne risulta che la parcellizzazione delle operazioni ricade su una molteplicità di soggetti difficili da controllare, rendendo lo sfruttamento dei lavoratori, specie in alcuni contesti privi di regolamentazioni e di controlli efficaci, la norma.
Chiariti i nessi moda/abbigliamento sostenibilità, rimane però aperto l'interrogativo di come un universo effimero ma spietato come quello della moda, che ha nell'invecchiamento artificioso dei propri prodotti, nutrito dai media, il proprio motore, possa farsi interprete di messaggi e di pratiche di sostenibilità. Per cercare di risolvere questa, che appare una contraddizione in termini, è necessario chiarire quale sia la genesi di tale tendenza. A spiegarlo è Emanuela Mora, docente di Sociologia dei Prodotti Culturali e dei Consumi presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università Cattolica di Milano e autrice insieme a un gruppo di altri studiosi di una ricerca su moda etica e consumo critico. "Si tratta di un'esigenza avvertita per il momento ancora solo da una ristretta nicchia di consumatori particolarmente sensibili" avverte la docente. "Le non numerose ricerche disponibili, la gran parte delle quali condotte dal nostro centro Modacult (Centro per lo studio della moda e della produzione culturale), ci dicono che i consumatori (o meglio le consumatrici, perché per ora si tratta di un target principalmente femminile) di moda sostenibile sono di due tipi; da un lato donne già significativamente coinvolte nelle diverse forme di consumerismo politico, abituate a boicottare o "buycottare" le imprese, attente all'impatto ambientale, sociale e sulla salute dei prodotti che acquistano, allenate da tempo a scegliere prodotti ecologici e sostenibili per le loro spese alimentari, igieniche e cosmetiche, stanno imparando a scegliere secondo questi criteri anche nel campo dell'abbigliamento. Dall'altra parte abbiamo donne meno motivate sul piano etico e politico, ma stanche della ripetitività delle proposte stagionali dei marchi più affermati e desiderose di trovare capi più originali, che raccontino una storia legata a materiali, persone, territori e che consentano loro di distinguersi dalla massa, senza farne solo o principalmente una questione di esclusività economica dei marchi diffusi globalmente".
Un bacino di consumatori del genere, è rappresentativo di mercati maturi come quello Europeo e Nordamericano, che infatti rappresentano il fulcro della nuova tendenza ecologico-sostenibile nella moda. Quanto alla Cina, hub mondiale dell'industria tessile, una nuova sensibilità, seppur limitata, verso nuove modalità di produzione più attente al rispetto dell'ambiente e dei lavoratori, sembra germogliare tra le seconde generazioni di imprenditori del tessile. Per lo più giovani, con esperienze di studio all'estero e che mostrano una maggior comprensione e sensibilità degli impatti ambientali e sociali a lungo termine del loro business, rispetto ai genitori. La strada da fare è però ancora molta e le brand cinesi che propongono prodotti in materiali naturali, organici o riciclabili - come WUYONG o JNBY acronimo di "Just Naturally Be Yourself" nata da un collettivo di giovani designer cinesi della zona di Hangzhou-, sembrano essere spinte da scelte stilistiche più che motivate da ragionamenti sulla sostenibilità.Interessante è, infine, l'esperienza, di molti stranieri. Maggiormente strutturato appare, infatti, il messaggio trasmesso da una serie di avventure imprenditoriali che spaziano dalla moda (per adulti e bambini) alla coltivazione di verdure organiche, all'arredamento con materiali naturali e vernici atossiche fino ai prodotti per l'igiene e la bellezza eco e che si concentrano nella zona di Shanghai, proponendosi annualmente in occasione dell'Eco Design Fair. Frutto principalmente dell'iniziativa di espatriati, che l'insostenibilità dell'attuale modello di sviluppo l'hanno sperimentata nei rispettivi settori e paesi e che una volta in Cina hanno deciso di partire proprio da qui per cercare di cambiare le cose. Proprio Shanghai, si presenta oggi come una possibile piattaforma per lo sviluppo di un discorso sulla sostenibilità che coinvolga i vari aspetti del vivere quotidiano. Il progetto di fatto esiste già e si chiama GoodtoSH e ha l'ambizione di allargarsi ad altre città cinesi fino a diventare "Good to China".
Tornando alla moda, la vicinanza alla zona del tessile del sud del paese, fornisce a Shanghai un vantaggio rispetto ad altre città cinesi, permettendo di mantenere il controllo sull'intera catena di produzione e fornitura, requisito fondamentale per garantire il rispetto dei requisiti fondamentali della sostenibilità. La città ha nel 2008 ospitato la prima edizione di EcoChic, manifestazione mutuata da Hong Kong e organizzata con il supporto della ong ambientalista Green2greener. Per il 2012 è prevista una nuova edizione della manifestazione che dovrebbe toccare le piazze di 5 grandi città cinesi, mostrando le collezioni di designer locali e stranieri accumunate da un messaggi eco-sostenibile. E' in questo clima che sono nate esperienze come quella di FINCH, marchio creato dall'estro di Heather Kaye, californiana trapiantata in Cina e da una socia indiana, ventidue anni di esperienza nel mondo della moda in due, ne sono un esempio. L'idea di questo, come di altri marchi della moda sostenibile, è quella di ribaltare completamente i dettami pratici della produzione e di proporre un ideale di moda meno soggetto alla volatilità e ai gusti stagionali. Il risultato sono capi classici ma resistenti e "la scelta di preferire l'uso di tinture reagenti a basso impatto, al posto di quelle vegetali, ad esempio, è dettata dalla volontà di creare un prodotto che non rilasci agenti chimici una volta lavato ma che si mantenga nel tempo". Dal punto di vista ambientale: "quello che facciamo è ridurre l'impatto delle produzioni sull'ambiente, preferendo fibre naturali e tessuti tecnicamente definibili come sostenibili in quanto vengono cresciuti senza l'utilizzo di pesticidi e raccolti a mano (in coltivazioni localizzate nelle province dello Shanxi e Zhejiang), riducendo l'utilizzo di acqua e basandoci sulla valorizzazione di tecniche e saperi locali, cinesi ed indiani". La risposta dei consumatori cinesi appare buona ma "la sensazione che abbiamo è che le donne cinesi non comprino un nostro capo perché porta un messaggio ma semplicemente perché piace". Se in Cina manca ancora un grado di consapevolezza e di maturazione del mercato nei confronti di prodotti sostenibili, almeno sui grandi numeri, "sta agli eco-disegner la responsabilità di creare prodotti che siano tanto o più attraenti degli altri e capaci di generare interesse". L'interesse del grande pubblico verrà a giorni testato con l'apertura di una pagina collettiva di prodotti eco-compatibili e sostenibili sulla piazza telematica di Taobao.
Ma se occorre lavorare sulla clientela è ugualmente necessario assicurarsi strutture adeguate, in grado di rispondere alle particolarissime esigenze che una produzione di moda eco-sostenibile presenta. Le due fondatrici di FINCH a questo proposito pensano in grande ed entro un anno hanno in progetto di dar vita a una nuova realtà nelle vicinanze di Shanghai. In parte laboratorio per accogliere giovani designer che utilizzano metodologie sostenibili, in parte fabbrica a basso impatto ambientale, l'obiettivo è creare una fabbrica modello che diventi anche luogo d'incontro e scambio per imprese di piccole dimensioni che in Cina avrebbero altrimenti difficoltà a inserirsi e a produrre secondo i propri standard. "La nostra speranza è quella di formare un gruppo di persone che condividono la nostra visione e uno staff di modellisti e sarti esperti nel riutilizzo di tecniche tradizionali".
di Nicoletta Ferro
Nicoletta Ferro è Senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei
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