LA "SIBERIA CINESE" - PARTE II

La firma del "Programma di cooperazione 2009-2018" che, come abbiamo visto, può avere enormi ripercussioni sulle aree ai confini tra Russia e Cina non ha avuto localmente una grande eco: da un lato, le autorità locali russe non hanno intenzione di opporsi ad una decisione che viene da Mosca; dall'altro, anche l'opposizione non si pronuncia. Ma la calma è soltanto apparente: su Internet impazza un acceso dibattito la cui tesi di fondo è che queste zone siano state di fatto vendute ai cinesi. Alcuni giornali lasciano spazio alla discussione, che il Tikhookeanski Komsomolets riassume in tre diverse posizioni. La prima, ben sintetizzata nelle parole dell'economista Mikhaïl Terski , direttore del Centro di Studi Strategici del Pacifico, sostiene quasi con rassegnazione che per la prima volta la Russia stia riconoscendo la dominazione del Dragone, affermando pubblicamente il proprio ritardo: " Stiamo per diventare un semplice serbatoio di materie prime per la Cina- scrive Terski- e non c'è nulla di tragico: i nostri dirigenti non hanno fatto altro che ratificare un dato di fatto". Ma secondo i fautori della seconda tesi, come il Direttore dell'Istituto di Storia, Archeologia e Etnografia dei popoli dell'Estremo Oriente non c'è ragione di farsi prendere dal panico: "Io sono addirittura deluso dall'accordo, –sostiene Larine in un articol o- mi aspettavo un documento sostanziale perché sono fermamente convinto che soltanto un vera cooperazione con la Cina permetterà di valorizzare l'Estremo Oriente russo". La terza, infine, ritiene che gli accordi non incideranno minimamente nella vita della gente comune, poiché i giacimenti saranno sfruttati dai cinesi e le società che dirigeranno la partita saranno localizzate a Mosca o a Pechino. Dall'esame delle relazioni russo-cinesi degli ultimi anni emerge inoltre una successione di eventi molto utile nella lettura del nuovo patto economico. Già cinque anni fa, la Russia aveva firmato un accordo che consegnava alla Cina numerose isole dell'Amour, a lungo contese tra i due Paesi, ma di fatto appartenenti alla Russia. Le cessioni si sono concluse l'anno scorso e il caso ha sollevato numerose proteste collettive che si sono riversate nelle piazze: l'ironia della sorte vuole che in questo episodio siano gli "estremisti" a curare gli interessi dello Stato, mentre i funzionari agiscano come "separatisti". Un altro evento di simile portata risale al mese di settembre e riguarda il cosiddetto "progetto Haishenwai" (nome cinese di Vladivostok); un progetto di sviluppo per la città che prevedeva una locazione di lunga durata (75 anni) sulla metà di Vladivostok a favore della Cina. Anche dopo l'annuncio di questo progetto si era assistito a manifestazioni di piazza da parte della popolazione russa, conclusesi con diversi arresti. Visto in questo contesto, l'accordo di cooperazione siglato in settembre da Medvedev e Hu Jintao sembra aver imparato la lezione: il "Programma di Cooperazione 2009-2018" fissa termini e condizioni più chiare rispetto agli accordi precedenti ed è stato condotto con maggiore trasparenza. Le autorità di entrambe le nazioni sembrano ora consapevoli che la cessione di territori ad uno Stato estero non è una sottigliezza e rischia di sfociare in reazioni incontrollabili. Così, sfruttando l'era del mercato globale, hanno fatto ricorso ad uno escamotage economico: lo sfruttamento delle risorse russe sarà esclusivo appannaggio della Cina, che tuttavia non avrà voce in capitolo sul sistema politico.
Approfondimento: Vladivostok o Haishenwai?
"Colui che domina l'Oriente" o "la scogliera dei cetrioli di mare"? Russi e cinesi si contendono da secoli questo porto che dà respiro alle infinite steppe russe sul Pacifico e che oggi è il punto d'arrivo della ferrovia Transiberiana. Appartenuta all'Impero cinese sin dai tempi della dinastia Tang, la città passò nella mani dei russi nel "vicino" 1860, quando la dinastia mancese dei Qing, in ginocchio a causa della guerra dell'oppio, fu costretta a firmare il Trattato ineguale di Pechino e a cederla al governo zarista. Ripercorrendo la storia di questa città dalla "doppia identità", si scopre che negli anni '30, a seguito della conclusione della Transiberiana, la sua popolazione accrebbe notevolmente e la comunità cinese – perfettamente integratasi con le locali popolazioni grazie alla conversione al cristianesimo e ai matrimoni misti – vi conduceva redditizie attività economiche, che spaziavano dai ristoranti alle drogherie, dai piccoli alberghi ai teatri. A turbare la tranquillità e la quotidianità di quello che potrebbe essere definito il gruppo di "Cinesi di nazionalità russa" furono le ambizioni imperialiste sviluppate dalla Russia zarista e la serie di deportazioni massicce che, protrattesi a partire dagli anni '30, non lasciarono traccia di alcun "straniero" nel territorio dell'estremo oriente russo. Con la fine della guerra fredda, nel 1992, Vladivostok si riaprì all'esterno e da allora è ricominciato un corposo via vai di popolazione di origine cinese. Provvisti di visto turistico e carichi di merci da rivendere oltre confine o da barattare in cambio di prodotti tipici della tradizione russa, gli "affaristi" cinesi hanno contribuito a ravvivare il mercato di Vladivostok, iniettando nuova linfa nel circuito economico locale dopo il misero fallimento dell'economia pianificata. Tuttavia, negli ultimi anni, le relazioni commerciali tra russi e cinesi si sono incrinate. Dal 2007 i "divieti al commercio" posti ai commercianti stranieri sono aumentati e si sono inaspriti, producendo un naturale calo nei profitti che ha portato numerosi commercianti cinesi ad abbandonare le terre dell'Estremo Oriente russo. Questi ostacoli al commercio sembrano riflettere le preoccupazioni interne della Russia: l'afflusso di popolazione di etnia cinese e il suo radicamento in un territorio scarsamente popolato e assai lontano dalla capitale come la regione di Vladivostok, pone delle grosse sfide in termini di sovranità e sicurezza.
di Giulia Ziggiotti