La Cina vuole brevettare il mondo
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La Cina vuole brevettare il mondo

La Cina vuole brevettare il mondo

Proprietà intellettuale - I NUOVI SCENARI
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C'è chi prevede, per il 2015, un'alluvione di due milioni di brevetti. A prima vista, non parrebbe un gran salto in avanti per l'innovazione, visto che nel 2010 – secondo gli ultimi dati della Wipo, la World Intellectual Property Organization – a livello planetario le richieste di brevetto sono state 1,98 milioni. Ma quella previsione non riguarda il mondo, bensì un paese solo: è scritta a chiare lettere nella «Strategia nazionale per lo sviluppo dei brevetti», un rapporto programmatico del Sipo, l'ufficio brevetti della Cina.
Dopo la flessione del 3,6% registrata nel 2009, «nel 2010 le richieste di brevetto sono cresciute del 7,2%», dice Francis Gurry, direttore generale della Wipo. «Le aziende del mondo continuano a innovare. E questo depone bene per il futuro dell'economia globale». Ma con qualche differenza a livello locale: quelle dei paesi Ocse sono aumentate del 3,7%, quelle americane del 7,5. E quelle cinesi del 24,3. I dati mondiali per il 2011 non ci sono, ma sono disponibili quelli dell'Epo, l'European Patent Office: +3% rispetto al 2010. Tanto per dare un'idea, nell'ultimo anno le domande dall'Italia sono aumentate dello 0,4%. Quelle dalla Cina, del 27,2.
«L'obiettivo di due milioni di brevetti fra tre anni è decisamente impressionante – commenta al telefono Christine Greenhalgh, professoressa emerita di economia a Oxford – ma bisogna ricordare che la Cina include nel totale anche i disegni industriali e i cosiddetti modelli di utilità», una sorta di brevetti di serie B che restano validi per la metà del tempo (10 anni) e che invece di vere e proprie invenzioni tutelano piccole variazioni a un prodotto o a un processo industriale. In gran parte del mondo, neppure esistono. «Per accedere alla Wto, la Cina ha dovuto rispettare gli accordi Trips sulla proprietà intellettuale e oggi, dopo una lunga fase di aggiustamento, sta dimostrando di voler rispettare i brevetti». Non foss'altro perché adesso, anche lei ha un portafoglio rigonfio di proprietà intellettuale.
In realtà, la professoressa Greenhalgh dubita che nel 2015 il Sipo riceverà davvero due milioni di richieste, seppur includendo brevetti, disegni e modelli d'utilità. «Ci vogliono anni e anni, per mettere a frutto le attività di ricerca e sviluppo». Beh, a dire il vero negli ultimi quindici anni la Repubblica Popolare ha impresso un'accelerazione alla ricerca scientifica che non ha precedenti nella storia. Nel 1996, i ricercatori cinesi avevano pubblicato sulla stampa scientifica internazionale oltre 27mila paper, sufficienti a classificarli al nono posto in graduatoria. Nel 2010, sono diventati secondi con 320mila: un'accelerazione che, se verrà mantenuta, consentirà alla Repubblica Popolare di scavalcare gli Stati Uniti – anche in questo – nel giro di cinque anni.
Certo, anche per gli articoli scientifici (che sono comunque peer-reviewed, ovvero controllati da altri scienziati prima della pubblicazione) c'è la variabile della qualità. Proprio come per i brevetti. «Anche se la Cina brucia tutte le tappe, un divario con il mondo occidentale c'è ancora. Al momento, possiede brevetti di qualità solo in un paio di settori industriali», osserva la professoressa di Oxford, che si è a lungo occupata di proprietà intellettuale.
La conferma viene da un recente studio di tre ricercatori europei. «La maggioranza dei brevetti cinesi origina da un pugno di società tecnologiche – spiega Christian Helmers dell'Università Carlos III di Madrid – e questa concentrazione è ancora più marcata nei brevetti cinesi registrati presso lo Uspto», l'ufficio brevetti americano. «Si tratta di aziende molto grandi, relativamente giovani, devote alla ricerca e fortemente orientate alle esportazioni». Ovvero player globali come Huawei e Zte (comunicazioni), Foxconn (nota per essere la mega-fabbrica che costruisce l'iPad), Lenovo (computer), Byd (batterie e auto elettriche).
«Ero una bambina negli anni 50 – racconta Christine Greenhalgh – quando il Giappone allagava il mondo con prodotti d'imitazione a basso costo. Poi, ha iniziato a innovare seriamente e ha cambiato il destino della sua economia». Nel mondo, ci sono 7,3 milioni di brevetti "in vita": di questi, 2 milioni sono registrati presso l'Uspto americano e 1,4 milioni presso il Jpo nipponico. Negli ultimi anni però, la tecnologia giapponese ha perso smalto e il Pil nazionale non tiene il passo con l'aumento dell'innovazione. Succederà anche alla Cina? «Probabilmente no», risponde. «Ma insisto: la Cina deve fare ancora molta strada. Se adesso rispetta i brevetti, non si può dire altrettanto dei marchi di fabbrica».
La conferma viene da Daniel Chow, professore di legge alla Ohio State University e grande esperto del tema. «La contraffazione in Cina – spiega al telefono – è sempre a livelli stratosferici. Le leggi per contrastarla ci sono e le multinazionali insistono sui sequestri di prodotti e macchinari. Ma questo approccio non tiene conto del ruolo del protezionismo locale». Secondo Chow, «gli arresti sono rari, le multe risibili e dopo pochi giorni i contraffattori ricominciano»: i governi locali conoscono bene il contributo che danno all'economia e all'occupazione. A suo avviso, nell'avventura cinese, le multinazionali dovrebbero adottare prudenza e pazienza.
Il dado però, è tratto. La Cina che copia e che non rispettava i brevetti, non investe nei settori industriali di ieri, ma in quelli di domani: tecnologie dell'informazione e tecnologie per l'energia pulita. E lo fa così scientificamente (ad esempio la tassazione sulle startup tecnologiche è appena scesa al 25%) che il mondo occidentale non può stare con le mani in mano. «L'enorme impegno nell'istruzione di una popolazione così vasta – ammette Greenhalgh – sta gettando forti basi per la produzione di invenzioni e innovazioni. Credo anche che, in questo, la Cina potrà essere d'esempio per gli altri Paesi emergenti». Quando si investe nell'innovazione – magari dopo una fase di copia, che pare inevitabile – si può trasformare il destino di un'economia.
Ma i Paesi ricchi e avanzati? Che ne sarà di un Paese che non investe abbastanza su scienza e la ricerca? «Ah, non c'è dubbio – risponde la professoressa – nel lungo periodo è condannato all'irrilevanza». Come sanno a Pechino, fra brevetti e prodotti interni lordi, c'è una stretta amicizia.
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05/02/2012
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