La Cina snobba l'offerta di Obama
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La Cina snobba l'offerta di Obama

La Cina snobba l'offerta di Obama

Il vertice sul clima - LOTTA AL RISCALDAMENTO GLOBALE
di lettura
Jacopo Giliberto
Marco Magrini
COPENHAGEN. Dai nostri inviati
Barack Obama e Hu Jintao, che quest'anno si sono incontrati tre volte per parlare di cambiamenti climatici, andranno anche d'amore e d'accordo. Ma altrettanto non si può dire dei loro delegati diplomatici.
«Spero che il presidente Obama possa portare un serio contributo qui a Copenhagen», ha detto ieri il ministro Zhenhua Xie, criticando la proposta avanzata sin qui dagli americani: entro il 2020, tagliare le emissioni del 17% rispetto al 2005. «Visto che l'anno di riferimento internazionale è il 1990, la loro proposta equivale a un taglio del 3 per cento». Il che non è esatto: corrisponde a un po' più del 4%. Ma pur sempre un quinto dell'offerta fatta dall'Europa.
Todd Stern, l'uomo dei cambiamenti climatici dell'amministrazione Obama, arrivato proprio ieri nella capitale danese, non ha perso tempo nel rispondere. «In primavera, spero che gli Stati Uniti annunceranno all'Onu impegni ancora più ambiziosi», ha detto Stern, riferendosi alla legge climatica di Obama bloccata in Senato dai repubblicani. «Ma il paese che si prepara ad aumentare drammaticamente le emissioni è la Cina. Sarà impossibile raggiungere un accordo, senza impegni precisi da parte cinese».
Pechino (che secondo i principi di Kyoto non ha obblighi) ha promesso di voler abbassare l'intensità energetica – minori emissioni in rapporto a un Pil che galoppa – nell'ordine del 40-45%. E Xie rimarca: la proposta corrente, di offrire 10 miliardi di dollari all'anno per l'adattamento dei paesi poveri al climate change è del tutto insufficiente. Lumumba Di-Aping, il sudanese a capo del gruppo dei 77, è un po' più tranchant: «Non bastano neppure a comprare una bara per i cittadini dei nostri paesi». Secondo Di-Aping, per salvare il mondo, ci vorrebbero gli stessi soldi che sono stati stanziati per salvare le istituzioni finanziarie. Ma è altamente improbabile che il mondo metta sul piatto dei cambiamenti climatici qualcosa come mille miliardi di dollari.
La trattativa resta complessa e intricata. Fra l'altro, i negoziatori sono divisi su almeno due diverse questioni. La prima è quella che viene chiamata double track, il doppio binario: l'ipotesi di arrivare a due accordi separati per i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo, peraltro pubblicamente proposta ieri da Tuvalu, il piccolo arcipelago del Pacifico fisicamente minacciato dall'innalzamento dei livelli del mare. La seconda questione è giustappunto quella dell'anno di riferimento, dal quale calcolare l'andamento delle emissioni di CO2.
Canada, Giappone, Russia, Australia, Stati Uniti, Nuova Zelanda puntano – insieme all'Unione europea – a creare un nuovo trattato unico e globale, un nuovo trattato da far entrare in vigore dal 2013, quando scade Kyoto. I paesi in via di industrializzazione – a cominciare dalla Cina – invece vanno controcorrente: il Protocollo di Kyoto va benissimo. Non a caso, il trattato firmato nel 1997 prevede impegni e limitazioni per i soli paesi industrializzati, in quanto responsabili di secoli di emissioni, e non impone nulla agli altri.
Ed ecco il double track attorno al quale si stanno aggregando consensi di mediazione. Si potrebbe arrivare ad aggiungere qualche emendamendo al vecchio Protocollo di Kyoto, ma che imponga ai paesi emergenti qualche piccolo impegno non troppo rigoroso; nel frattempo, i paesi più industrializzati potrebbero concordare un tracciato di lavoro per creare il nuovo trattato globale futuro, al quale si aggregheranno un domani anche gli altri paesi.
Di sicuro, si sa che i padroni di casa danesi vogliono arrivare a un documento forte che porti il nome della loro capitale, così come la città giapponese di Kyoto è diventata – con l'omonimo protocollo – un nome famoso nel mondo.
E poi, c'è la questione della data di riferimento. Quando tutti concordano di dimezzare le emissioni nel 2050 (o un qualunque altro obiettivo), bisogna riferirsi al dato di base, cioè alle emissioni rilevate in un certo anno. Gli Stati Uniti parlano del 2005. L'Europa parla del 1990, ma quando nel 2012 scadrà il Protocollo di Kyoto l'Europa potrebbe essere costretta a considerare il 2012 come anno di riferimento. Dimezzare le emissioni del '90 è un conto, quelle del 2005 un altro, e quelle del 2012 un altro ancora.
Il divario – fra nord e sud, fra est e ovest, fra ricchi e poveri – è grande. E otto giorni, quelli che restano a disposizione, sono pochi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

10/12/2009
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