La Cina scava ancora in Australia
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La Cina scava ancora in Australia

La Cina scava ancora in Australia

LA STORIA - Dopo lo stop a Chinalco su Rio Tinto nuova strategia di partecipazioni minoritarie per il Dragone
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CANBERRA
La tecnica è cambiata, ma l'invasione continua. Scottata da recenti débâcle, come il fallito accordo tra Rio Tinto e il gigante cinese dell'alluminio Chinalco, i dirigenti della Repubblica popolare hanno deciso di sostituire il "go out" (andare alla conquista all'estero) con un più scaltro "buy low" (comprare sottoprezzo). Ma il piano di entrare massicciamente nel business minerario australiano non si ferma.
La campagna acquisti cinese sul suolo australiano ha accelerato, a partire dal 2008. Nel 2007-2008 il Foreign Investment Review Board (Firb) ha approvato progetti per 7,5 miliardi di dollari australiani (corrispondenti a 5,4 miliardi di euro), da metà 2008 a fine 2009 le società cinesi hanno sottoposto all'attenzione del Board 90 proposte per un valore di 34 miliardi (24 miliardi di euro). Già nel 2008, secondo un recente studio di Ernst&Young, la Repubblica popolare era dietro i due terzi delle fusioni e acquisizioni in Australia. Inoltre, tra il 2004 e il 2009, secondo un rapporto di Economist Intelligence Unit, l'81% degli investimenti è stato compiuto da società statali e la metà comportava assunzione di una quota di maggioranza. Oggi le operazioni sono pari a 40 miliardi di dollari (29 miliardi di euro), la Cina è il secondo investitore internazionale per Canberra. Pechino è anche il primo partner commerciale australiano, con acquisti di merci e servizi pari a 83 miliardi di dollari (60 miliardi di euro) nell'anno terminato a giugno del 2009.
Gli investimenti cinesi vanno dagli istituti finanziari, alla proprietà immobiliare, dall'agricoltura all'industria automobilistica. Ma sono particolarmente importanti nelle materie prime, necessarie ad alimentare la crescita di Pechino. Nel 2009 la società cinese del carbone Yanzhou Coal ha acquistato la mineraria australiana Felix Resources per 3,5 miliardi di dollari (2,5 miliardi di euro), segnando il più grande deal nella storia dell'industria mineraria di Canberra. «Sono cifre da capogiro - dice Sam Walsh, responsabile dei minerali ferrosi per Rio Tinto -. È come una manna caduta dal cielo».
L'Australia è una miniera a cielo aperto: è il maggior esportatore di carbone e minerali ferrosi. Ha sfruttato il suo potenziale e l'industria mineraria oggi contribuisce al 41,5% dell'intero export. Oro, rame, zinco e minerali ferrosi hanno permesso a Canberra di superare indenne la crisi economica e finanziaria mondiale.
I soldi cinesi sono sempre benvenuti ma non mancano le preoccupazioni: si teme che i cinesi finiscano per controllare i prezzi stessi delle materie prime, il Firb nel 2009 ha fatto capire di preferire che società straniere non possiedano più del 15% di una società mineraria già avviata e il 50% di nuovi progetti. La paura "cinese" si è poi estesa al campo della sicurezza e sociale. Lo stesso ex primo ministro Kevin Rudd, fluente in cinese mandarino e grande cultore dell'amicizia sino-australiana, non ha esitato nel 2009 ad annunciare - in chiave preventiva nei confronti della Cina - la più grande spesa militare dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Il sospetto è anche che la Cina, come contropartita all'acquisto di materie prime, voglia di più. Pechino ha chiesto più volte che film di registi dissidenti venissero tolti dalla programmazione di Festival del cinema australiani e che l'ingresso nel paese venisse negato a figure considerate controverse. Clamoroso è stato poi l'appello agli studenti cinesi in Australia (una comunità di 70mila persone) perché partecipassero ai rally anti-Tibet a ridosso delle Olimpiadi di Pechino.
«La Cina sta ridando forma al tessuto politico e sociale del paese - commenta Chen Jie, professore di relazioni internazionali all'Università del Western Australia - e si intromette nella vita quotidiana australiana».
L'ambasciatore cinese Zhang Junsai ha cercato di placare le paure sull'intrusione di Pechino nella vita politica e sociale australiana: «Le aziende che investono in Australia sono di proprietà statale, ma non sono gestite dal governo cinese. L'esecutivo - ha chiarito - è interessato a che queste aziende facciano profitti e nient'altro».
Investire globalmente è una necessità per la Cina, in un momento in cui dirigenti e politici cinesi fanno fatica a trovare progetti di alto profilo cui destinare gli enormi profitti dell'industria cinese e gli stimati 2mila miliardi di dollari Usa (1.500 miliardi di euro) accantonati nelle riserve governative in valuta estera.
Un ostacolo agli investimenti in Australia di Pechino è il giro di vite del Firb che ha recentemente bloccato alcuni accordi, come appunto l'iniezione da 19,5 miliardi di dollari Usa (14 miliardi di euro) di Chinalco in Rio Tinto. Per questo motivo consulenti politici ed economici del governo cinese hanno consigliato un cambio di tattica. Un rapporto, commissionato dal Consiglio di stato, suggerisce a Pechino di adottare un modello giapponese agli investimenti, ovvero l'acquisto di quote non maggioritarie, in joint venture con società australiane, con l'impegno ufficiale a non interferire sul prezzo delle materie prime.
«Non è necessario - si legge nel documento intitolato "Come la Cina dovrebbe aumentare i suoi investimenti nelle risorse all'estero: una riflessione sull'affare Chinalco-Rio Tinto" - avere la maggioranza delle azioni o avere direttori nel board. Ciò che è realmente importante è stabilire un proficuo rapporto tra domanda e offerta nel mercato delle materie prime». La politica del "go out" si sta gradualmente trasformando in un "buy low", ma l'ondata degli investimenti cinesi in Australia non si arresta.
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29/01/2011
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