di Giovanna Tescione
Roma, 14 set. – Alla 72esima edizione della Mostra del cinema di Venezia la Cina è rimasta a bocca asciutta. Nemmeno Behemoth, del regista Zhao Liang, favorito tra quelli in concorso, è riuscito a strappare il Leone al venezuelano Lorenzo Vigas, con ‘Desde Allà’, film sulle assenze affettive tra le difficili periferie di Caracas.
Nella giuria, presieduta dal regista messicano Alfonso Cuarón, anche Hou Hsiao-hsien, il regista taiwanese che a maggio scorso si è aggiudicato il premio per la migliore regia per la pellicola ‘The Assassin’ presentato nella sezione in concorso alla 68esima edizione del Festival di Cannes.
BEHEMOTH DI ZHAO LIANG
In corsa per il Leone d’oro e tra i favoriti fino all’ultimo istante alla 72esima edizione del Festival di Venezia, è Behemoth – in cinese Beixi Moshou - del regista cinese Zhao Liang, un film sospeso tra verismo e sogno, realtà e allegoria, con un riferimento palese alla Divina Commedia di Dante, che, se non altro, si candida ad essere uno dei film più riusciti della mostra.
Nel puro stile di Zhao Liang, che già in passato ha lavorato a documentari sulla Cina contemporanea, il lungometraggio è un documentario realista di 95 minuti che racconta, attraverso immagini ultra definite, la vita di tutti i giorni di una comunità mongola e dei minatori nella città di Orsos. Miniere che prendono il posto delle infinite praterie, l’economia moderna che scalza le tradizioni, pastori costretti ad andarsene tra la cenere e il rumore delle miniere. Sotto il sole cocente o sotto la luna in Mongolia si lavora notte e giorno, sporchi e stanchi fino a diventare come fantasmi. Behemoth è uno spaccato della società e dello sviluppo economico cinese, ma anche un monito a ciò che l’uomo ha fatto e continua a fare nella piena imprudenza.
Prima, il regista e artista cinese, osserva da lontano i minatori, come fossero delle formiche operaie al lavoro, poi si avvicina ai loro volti solcati dalla fatica e segnati da uno sguardo rassegnato a un destino già scritto.
Qualcuno l’ha definito un viaggio ‘dantesco’ nella Mongolia più moderna, dove i minatori sono anime intrappolate all’inferno e la voce del narratore un moderno Alighieri e dove Inferno, Purgatorio e Paradiso sono rispettivamente il rosso delle ferriere, il grigio della polvere e il blu della città surreale di Ordos. Ma la verità è che è tutto reale, una faccia nuova e drammatica della Mongolia, che mostra il prezzo che ha pagato la Cina per diventare una potenza economica, mentre a Pechino si parla di voler ridurre la dipendenza dal carbone, principale fonte energetica del Paese.
Prodotto da Ina in coproduzione con Arte France, quello di Zhang è uno sguardo duro e critico che più volte si è scontrato con l’approvazione cinese, che ne ha impedito la diffusione in Cina. Zhao Liang, cineasta e fotografo cinese è stato più volte premiato per i suoi lavori.
"THARLO" DI TSEDEN PEMA
In concorso alla 72esima edizione del Festival del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti era anche “Tharlo” – pellicola dell’acclamato regista tibetano Pema Tseden proiettato per la prima volta al Festival venerdì scorso.
Tratto da un racconto scritto dallo stesso regista, il film vede protagonista un giovane pastore di nome Tharlo, un uomo semplice la cui grande ambizione è “servire il popolo”, ma che sa molto poco di sé stesso, nemmeno il suo nome gli è più familiare e si riconosce solo nel nome ‘Treccia’, unico suo tratto distintivo, una lunga treccia nera. Tharlo scoprirà che il mondo che lui conosce è solo un granello nel deserto. Tharlo infatti a 40 anni non ha mai avuto una donna, solo tante pecore, il suo gregge, che porta tutti i giorni su per le infinite montagne del Qinghai. È questo il suo mondo, un mondo tutto suo da cui dovrà imparare a distaccarsi, facendo i conti con la realtà e aiutato dall’amore per una donna, Yangtso , interpretata da Yangshik Tso, che lo metterà di fronte a sé stesso e alla sua identità nascosta.
Girato nella regione tibetana del Qinghai, ‘Tharlo’ dipinge un Tibet diverso, fatto non solo di montagne e paesaggi sconfinati e da cui il protagonista vorrà allontanarsi per scoprire la vita che c’è al di là. Il Tibet descritto è un Tibet transizione da un passato agricolo ad un presente urbano e una generazione di tibetani che cerca di adattarsi, ma che è un po’ il filo conduttore di tutti i film più conosciuti di Pema, a partire da Old Dog, nel 2011, un film sui cambiamenti nella società tibetana.
Un film minimalista, girato in bianco e nero, che mette a nudo la parte più intima del protagonista, interpretato da Shidé Nyima, famoso attore, poeta e musicista anche lui di origini tibetane. Pema Tseden, autore e sceneggiatore, che ha studiato alla Beijing Film Academy, non è nuovo al grande schermo. Dal suo primo film nel 2005 con The Silent Holy Stones, la strada che Pema ha percorso è lunga, fino a Old Dog, nel 2011, con il quale Pema vinto il Golden Digital Award al Festival internazionale del film di Hong Kong, mentre il lungometraggio The Search era stato presentato al Festival di Locarno in Svizzera e The Sacred Arrow, nel 2014.
“JIA” DI LIU SHUMIN – THE FAMILY
Presentato in apertura al Festival del Cinema e selezionato quasi allo scadere della programmazione, ‘Jia’ – ‘the family’ il titolo in inglese - di Liu Shumin si presenta come una pellicola minimalista e intima. Un film lunghissimo, quattro ore e quaranta, ben 280 minuti, ‘Jia’ è stato senza dubbio tra i film che più hanno fatto parlare di sé. Circa 100 gli spettatori che si sono alzati prima della fine, circa 150 i coraggiosi che hanno resistito fino alla fine per regalargli un minuto di applausi ed assistere ad un finale tragico giusto esodo del viaggio di una vita.
Sostenuto da Jia Zhang-Ke, l’autore già Leone d’Oro a Venezia per Still Life nel 2006, il regista, Liu Shumin, alla sua prima esperienza, racconta una Cina semplice e tradizionale, impersonata da Liu e Deng, una coppia di settantenni che – come in Viaggio a Tokyo di Ozu - intraprende un lungo viaggio per andare a trovare due dei loro tre figli che vivono a centinaia di chilometri di distanza. Un viaggio - durato per un anno di riprese - dove la Cina popolare incontrerà la modernità, provincia verso città. Ma davanti a tutto questo la famiglia non perde di importanza, anzi, mantenerla salda e unita e superare i malumori.
MR SIX DI GUANHU
Selezionato come film di chiusura della mostra e presentato nella sezione fuori concorso, Mr. Six (Lao pao er) del maestro cinese Guan Hu. Un avvincente action movie metropolitano sulla “guerra tra bande” che però si pone il problema – come molti altri registi cinesi contemporanei fanno adottando prospettive diverse – delle differenze generazionali
Ambientato nella Pechino di oggi, tra grattacieli e vecchie case degli Siheyuan, due generazioni sono messe a confronto, in una guerra tra bande nel puro stile action fatto di sequestri,
Protagonisti le star Kris Wu, cantante e attore, uno dei volti più amati dalle giovani generazioni cinesi, e Zhang Hanyu, già protagonista del cinema di Tsui Hark e Peter Chan e Feng Xiaogang, nei panni di Mr Six, considerato lo Steven Spielberg del cinema cinese e “re del cinepanettone" in Cina. Da ‘Aftershock’, film che descrive uno dei più grandi disastri naturali della storia, il terremoto che nel 1976 devastò la città di Tangshan, nella provincia settentrionale dello Hebei, causando la morte di 240mila persone e grazie al quale in meno di un mese ha incassato ben 532milioni di yuan (circa 60milioni di euro), a ‘If you are the one’, tutti i suoi film sono record di incassi.
Noto anche il regista, Guan Hu, che già a partire dagli anni ’90 ha diretto una serie di film che lo hanno reso un’importante voce nel panorama cinematografico cinese. Da Dirt (1994) a Dou Niu (Cow), con il quale ha partecipato nel 2009 alla Mostra di Venezia, nella sezione Orizzonti ottenendo ben 9 nomination.
14 settembre 2015
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