Ningbo, 11 ott. - Venerdì 8 ottobre 2010, sono nel mio ufficio a Ningbo, provincia dello Zhejiang, nei pressi di Shanghai, a due ore di volo da Pechino e dal carcere di Jinzhou. Da un anno lavoro nella Repubblica Popolare Cinese che mi ha accolto nel migliore dei modi perché svolgessi il mio lavoro di docente e ricercatore universitario presso il campus cinese di una università britannica.
Dai siti internet occidentali mi accorgo che è successo qualcosa di grosso. Sono abituato a leggere quotidianamente articoli sulla Cina, ma quasi sempre si tratta di economia, catastrofi o amenità.
Questa volta è diverso. Il premio Nobel per la Pace è andato alla Cina. Il titolo sembra provocatorio, ma per un emigrante italiano accolto a braccia aperte dai propri studenti e colleghi cinesi ogni volta che la Cina è nei titoli di testa della stampa occidentale si balza sulla sedia. Eccomi, sono qui, anche oggi sto assistendo in prima fila alla trasformazione inesorabile degli equilibri mondiali che avevamo ereditato dal secolo scorso. Le olimpiadi, l'Expo, la guerra valutaria, il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare, gli scioperi nelle fabbriche della Apple, l'anniversario della repressione di piazza Tiananmen, il sorpasso del Giappone, ed ora, un premio Nobel al principale dissidente politico.
Subito sfoglio la stampa cinese in lingua inglese. Nessuna notizia, tranne che tra i giornali di Hong Kong, in primo luogo l'ottimo Southern China Morning Post. Leggo di alcuni arresti, di sms e web filtrati più del solito. In cinese l'agenzia Xinhua e il Beijing Qingnianbao hanno dato la notizia. In televisione embargo totale, persino BBC World è stata a tratti oscurata.
Poi apro il sito della Fondazione Nobel. "Liu Xiaobo. Residence at the time of the award: China. Prize motivation: for his long and non-violent struggle for fundamental human rights in China.Field: Human rights." In pochi minuti tutto il mondo torna a parlare della repressione di Pechino, del movimento democratico cinese, del dibattito interno al Partito Comunista Cinese, di Charter 08.
Per un attimo i toni distesi e ottimisti dei miei racconti sulla Cina sembrano tremare sotto i miei piedi. Da quando sono qui, racconto ai miei amici e colleghi europei di un paese dove il regime è praticamente invisibile. Non vi è traccia di repressione poliziesca, non si vedono soldati e uomini armati in strada, le autorità si presentano con un volto garbato e amichevole.
Al netto dei conflitti nelle provincie delle minoranze etniche e della repressione dei dissidenti politici e dei pochi intellettuali, racconto da sempre di una popolazione soddisfatta dell'operato del governo e del drastico miglioramento delle condizioni di benessere osservabili tra generazioni e persino all'interno della stessa generazione. Non c'è dubbio che la mia percezione è distorta dalla scarsa conoscenza delle provincie interne, dalla barriera della lingua. E' chiaro che i divari regionali sono enormi e che la cosiddetta economia di mercato socialista non ha l'equità tra le sue priorità.
Tuttavia non sono i carri armati ma il buon governo dell'economia a tenere unita saldamente la Nazione. Racconto della loro politica estera pacifica e giustifico la loro politica valutaria, difendo la politica del figlio unico e descrivo il paradosso di una buona selezione della classe dirigente nazionale che avviene anche in assenza di competizione elettorale e di libera stampa.
Il Nobel a Liu Xiaobo è l'occasione perfetta per tornare a riflettere. Mi ricorda che molte persone stanno soffrendo in carcere per le loro idee e sapere che il restante miliardo e trecento milioni di cinesi non senta in questo momento l'impellente bisogno di ribellarsi contro il Partito Comunista Cinese per un attimo mi sembra un particolare irrilevante.
Un occidentale, un cittadino europeo in particolare, è portato a pensare che il progresso economico di un miliardo di cinesi che questa autocrazia ha saputo garantire non giustifica il carcere per reati di opinione politica di un singolo essere umano. E' così. Come negarlo. Non ho forza intellettuale, voglia e tempo per cercare di dimostrare il contrario. Eppure la libertà di espressione forse non è la priorità del miliardo abbondante di cittadini cinesi. Ad ogni modo la Cina non è la prigione delle menti. Tutt'altro.C'è un fervore di arte contemporanea, pittura e letteratura, che prende di mira apertamente il socialismo e alcuni dei suoi miti. I miei studenti utilizzano Facebook e Youtube come ho imparato a fare io stesso. I cinesi viaggiano, studiano all'estero, se vogliono aggirano i controlli e guardano la televisione occidentale. Addirittura esistono altri partiti politici non clandestini. A Hong Kong è possibile manifestare contro il Partito Comunista Cinese, a Shanghai è possibile studiare scienze politiche su testi occidentali.
Ho voglia di provare a suggerire di contestualizzare la realtà. Perché le catastrofi ecologiche cinesi fanno più notizia? Perché i ministri del governo cinese sono laureati e dottorati mentre i ministri dei governi italiani hanno spesso e volentieri solo licenza media o maturità? Non stiamo sottovalutando i limiti della democrazia indiana? Al netto della propaganda e della mancanza di capabilities, come mai il Partito Comunista vincerebbe eventuali elezioni generali anche secondo molti analisti occidentali? Ci siamo accorti pienamente della modernità della società e delle istituzioni cinesi rispetto alle tante nazioni arabe o asiatiche schiave dell'influenza dell'Islam?
La Cina sta facendo passi da gigante nelle infrastrutture e nella trasformazione della società. Resta tuttavia un gigante lento e abituato a ragionare nel lungo e lunghissimo periodo (questo è un grande punto di forza dal punto di vista dell'orizzonte e dell'ambizione delle politiche). Qualcosa sta accadendo sul fronte dei diritti civili. Lo stesso primo ministro Wen Jiabao è uno dei promotori di questa riflessione politica. Non solo ad Hong Kong il dibattito e le sperimentazioni sono in corso. Ma ha senso immaginare che domani la Cina si trasformi in una democrazia compiuta? Se fosse possibile "bombardare" la democrazia in Cina, lo fareste davvero?
Ho letto sui giornali italiani che il Nobel a Liu è una provocazione contro la Cina. Certamente lo è, ma non credo che nessuno sia davvero preoccupato per le conseguenze di questa scelta che peraltro ammiro. Sono felice che ad Oslo qualcuno abbia deciso di rimediare alla leggerezza della scelta del 2009 con una decisione coraggiosa. Sono convinto che non ci saranno conseguenza negative di questo evento (salvo che per i commerci norvegesi ovviamente).
Sono felice per il Nobel a Liu, spero possa contribuire ad alleviare le sofferenze dei suoi cari e delle altre vittime. Sono però convinto che si tratta di una freccia di gomma sparata contro un gigante per nulla impaurito e che non si possa attendersi null'altro che una lentissima transizione istituzionale.
Il Partito Comunista Cinese e le fazioni che lo compongono sono consapevoli della sfida che hanno davanti e stanno cercando di inventare un modo per quadrare il cerchio della transizione di un gigante grande tre volte l'Unione Europea. Il Nobel a Liu Xiaobo potrebbe contribuire ad illuminare questa riflessione. Se così fosse, in qualche modo, sarà davvero un Nobel per la Pace alla Cina.
di Andrea Bernardi
Andrea Bernardi, lecturer in Organisational Behaviour presso The University of Nottingham, China Campus, Ningbo.
La rubrica "Lettere dalla Cina" ospita gli interventi di giovani italiani che vivono e lavorano in Cina, offrendo spunti di vita quotidiana e riflessioni originali. Andrea Bernardi, Corrado Gotti Tedeschi, Elisa Ferrero e Gianluca Morgese.
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