L'alba del nuovo lusso globale
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L'alba del nuovo lusso globale

L'alba del nuovo lusso globale

Il futuro tra crisi e mercati emergenti. Si apre oggi l'81esima edizione di Pitti, vetrina per oltre mille marchi «top»
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Igruppi di burocrati cinesi coi colli strozzati da cravatte dozzinali che sciamano in perenne ricognizione fra gli stand delle fiere raccontano il futuro del lusso - e ancor più, del capitalismo - meglio delle algebre tristi di qualunque Standard and Poor's. A osservarli bene, infatti, quegli occhi obliqui che sotto i capelli rigorosamente tinti indagano intrecci Bottega Veneta e tecnologia Della Valle, gioielli Cartier e borse in cuoio Vuitton, fantasie Gucci e leggerezze Cucinelli da imporre alle nuove plebi urbane delle remote regioni di Guangzhou sono la metafora perfetta di un orizzonte obbligato. Il destino che attende il made in Italy stregato della Cina, estrema Terra Santa di un lusso condannato al perimetro compreso tra il traffico d'imitazioni a basso costo e i falansteri della bolla immobiliare prossima ventura. Un luogo magico e pragmatico assieme, il mercato cinese, dove grazie al capitalismo di stato il prodotto interno lordo crescerebbe a due cifre, promettendo di sanare tutte le Pomigliano d'Occidente.
Possibile? Tutto questo è reale o siamo di fronte all'ennesima cineseria, come la prima con cui il Gran Cane ammaliò Marco Polo, i fuochi d'artificio, e l'ultima che, secondo il Financial Times, sarebbe la conquista della Luna, da parte di Pechino, nel 2020? Se la vulgata dell'economia italiana ne sembra convinta, esibendo con dovizia forecast e bilanci certificati, solitari ingegni descrivono gli eventi procedere in una direzione opposta a quella del lusso. E cioè verso il camuffamento sottile, la parodia mascherata e infine l'omologazione totale. È lo scenario affrescato da Geminello Alvi, fra i maggiori e più originali economisti in circolazione, che nell'ultimo libro (Il capitalismo verso l'ideale cinese, Marsilio, 2011) dipana fra statistica ed epica, materie prime e antroposofia un'intuizione dimenticata.
Quella di John Stuart Mill, il talento visionario che nel 1859 profetizzò un'«Europa che sta avanzando risolutamente verso l'ideale cinese di rendere simili tutte le persone». Economista eretico ma pur sempre economista, Alvi parte dai numeri per districarsi nell'ultimo sortilegio del Celeste Impero. Nel 2006 in Cina i soggetti privati titolari di un business erano circa 26 milioni su 1,3 miliardi di abitanti, una proporzione che registrava un calo del 15% sui dati precedenti. L'anno successivo, i numeri confermavano che le società cinesi veramente private contribuivano per meno del 10% agli incassi fiscali, introiti che sarebbero peggiorati nel giro di dodici mesi. È l'evidenza più lampante che in Cina la proprietà privata basata sull'individuo, essenza del capitalismo e dunque del lusso, s'incrocia con quella statale, loro negazione assoluta. E si diluisce con compagnie estere e privati vari i quali, però, per legge non possono possedere quote di controllo.
È il comunismo finanziario. A sventare quello che potrebbe apparire un pregiudizio arriva il soccorso dei documenti ufficiali. Lo stato cinese, che oggi abbaglia l'Italia e il mondo con una versione di capitalismo in dirompente quanto misteriosa crescita, controlla direttamente tutti i settori industriali chiave. Energia, petrolio, carbone, petrolchimica, gas, telecomunicazioni, armamenti, aviazione, navi, meccanica, auto, informatica, prodotti metallici, ferrovie, grano, assicurazioni. Così, mentre ancora nel settembre del 2008 il segreterio di Stato americano Paulson dichiarava, secondo l'antico refrain di Bill Clinton, che «i leader della Cina erano attenti alle riforme almeno per quanto avrebbero migliorato la stabilità economica e politica della loro nazione», la rivista Foreign Affairs tagliava la testa al toro: «La differenza con Hu e Wen nel 2002-2008 è stata che la loro gestione ha esteso senza sosta la parte dello stato nell'economia, e ciò malgrado l'assenza di pause nella crescita». Per fortuna accorre Alvi a chiarire come stanno davvero le cose. «La crescita a due cifre del prodotto, che meraviglia l'Occidente è l'esito grottesco del fatto che il dispotismo può collezionare rapidamente enorme ammontare di capitale e usarlo ad arbitrio.
Con un investimento privato dosi crescenti di capitale richiederebbero fiducia dalle banche e prenderebbero comunque più tempo, quelle cinesi hanno invece la prontezza dell'arbitrio statale. Non solo le infrastrutture ma anche le fabbriche di stato sono trattenute in un periodo di produzione finto breve quando invece è lungo, sintomo di un capitale per lo più fittizio. In Oriente del resto pure la crudeltà morale è impermanenza. Si tassa e si tortura la Cina più vasta, meglio orientata al mercato, per finanziare quella urbana, groviglio d'assurdità camuffate da orientali sapienze, finto enigmatiche».
Insomma, il mercato comunista sarebbe un mezza verità, quindi una menzogna. Proprio come il lusso per tutti. D'altra parte, questo appare il destino del capitalismo occidentale e della sua quintessenza, il lusso, che in Oriente giunge al capolinea compiendo la parabola che dalla distinzione, l'individualizzazione conduce alla massificazione all'omologazione. Dall'esclusività per pochi all'inclusività di tutti. Proprio come le masse infinite di sudditi che in quelle regioni sono passate dall'essenza di produttori comunisti a consumatori capitalisti. Senza lo stadio degli individui. Il paradosso del lusso di massa, che in Cina diventa lusso di stato per le masse, è che a ognuno, in quanto consumatore, è imposto il diritto di poter essere tutto: questo però non è il benessere, è la dittatura del benessere. Se il lusso, invece di valorizzare l'io, lo omologa siamo davvero alla realizzazione della profezia di Marx ed Engels, la promessa del Manifesto di liberare tutti i lavoratori, ovvero gli individui come li percepisce il socialismo, all'ombra di un'idea salvifica.
Paradossalmente, in Cina tutto ciò avviene grazie al mercato, o meglio grazie alla sua quintessenza, il lusso, il benessere e ogni altro aspetto del sogno americano, che promette a ciascuno di raggiungere la felicità spirituale attraverso quella materiale.
Inutile dire che il futuro del lusso sta altrove. Non in un luogo geografico ma in una geografia degli affetti e delle azioni, dei nessi umani e del valore delle cose. Un nuovo nominalismo, in grado d'innescare un futuro per l'industria che si sottragga alla tirannia dei grandi numeri. Del resto, è evidente che il pervertimento del lusso alla misura delle masse sottrae al lusso stesso ogni individualità, ogni possibilità di realizzare la sua vera essenza, al punto palese che oggi chi ha più denaro non si ritrova più garantita alcuna meraviglia esclusiva. «Non albergo o vagone ferroviario, biancheria, gioiello, yacht o quant'altro che pacatissimo, sa quello di una volta.» Cosa occorre dunque per uscire dall'incantesimo di un'Europa stretta nella morsa fatale del mercato americano che si disindividua in Cina? Alvi sostiene che corra ripensare alle pianure della Russia, a un rapporto con la Grande Madre che nutre il profondo spirito dell'Europa cristiana e che sola rappresenta una resistenza alla degenerazione. Ma soprattutto, ripensare il capitalismo, il mercato e dunque il lusso in una chiave altra: di minori consumi ma di maggiori qualità sorretta dall'idea del dono.
L'attuale crisi finanziaria può essere un ottimo viatico. Sequenza di cause collegate, dall'egemonia americana del secolo scorso alla nascita dell'euro, dalle scelte di Greenspan alla new economy, la crisi con cui è alle prese il Governo di Mario Monti alla fine non è altro che la mutazione conclusiva di un'evoluzione di capitalismo e quindi della classe operaia, che «cede al tasso di profitto quanto gli aveva ripreso negli anni 70». Una mutazione genetica che spinge Alvi ripensare a una via terza tra capitalismo e anticapitalismo, un sentiero interrotto tra Olivetta e Stirner, Kropotkin e Sombart. Un percorso dove i fondamenti dell'economia tornano a distinguersi da quelli, degenerati, del capitalismo finanziario. Il futuro del lusso, che a Pitti celebra ancora una volta se stesso sfidando la cupezza dei tempi, deve avere il coraggio morale prima che industriale di rivolgersi nella stessa direzione. Superare l'egemonia mentale del tornaconto e concentrarsi sull'io, l'unica e irripetibile esperienza che dà un senso non solo al mercato ma alla propria esistenza. L'unica salvezza per non cadere nelle spire del drago.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

10/01/2012
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