Intervista a Giulio Machetti, professore di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale
Roma, 9 dic.- Con la spedizione contro i boxer per la prima volta l'Italia si accaparra una fetta della torta.
La fetta peggiore. L'Italia partecipò alla spedizione solo per risollevare la sua immagine; il prestigio internazionale era infatti crollato dopo la sconfitta di Adua. Era stato l'unico Paese occidentale sconfitto in Africa, una macchia indelebile. Fu infatti una partecipazione molto limitata: su un corpo di spedizione di 70mila uomini, l'Italia ne portò solo 2.500. Inoltre, mentre tutti gli altri Paesi utilizzarono questa spedizione per cercare altri territori dove potersi insediare, l'Italia fu un po' messa da parte. La stessa concessione - quella di Tianjin - fu 'strappata' all'ultimo momento: il nostro Paese, non avendo trovato altri territori, si stanziò nell'ultimo spazio rimasto nella città. Il più scadente: era un'area occupata da due depositi di sale, una palude, un cimitero e da un poverissimo villaggio abitato da 17mila cinesi. Eppure gli italiani riuscirono a bonificare l'area e a realizzare cose meravigliose.
Si riferisce al piano puramente architettonico, immagino.
Esatto. Sul piano architettonico, l'Italia è stata molto ammirata. La concessione italiana a Tianjin - costruita negli anni '20 – rappresentò un caso particolare poiché non si trattò di una concessione commerciale come nella maggior parte degli altri Paesi, ma residenziale. Il quartiere italiano – la cui restaurazione è terminata poco tempo fa – ricordava molto le cittadine rivierasche con villette basse circondate da un piccolo giardino. La realizzazione e lo stile degli edifici piacque talmente tanto ai cinesi che vi andarono a vivere. Poi nel 1943, dopo l'armistizio, i giapponesi occuparono la città e realizzarono una sorta di istruttoria con gli edifici più importanti di Tianjin, quelli da abbattere e quelli da conservare. Di questi, si trattava in gran parte di edifici indicati come da salvare perché di grande pregio furono proprio quelli italiani.
Quanto alle imprese, invece, gli italiani riuscirono ad affermarsi in qualche modo?
No, ci furono più che altro casi sparsi, in particolare con qualche presenza nel sud della Cina, e a Shanghai. Il fascismo cercò di far penetrare l'industria aeronautica in Cina in qualche modo, soprattutto per via dei rapporti privilegiati che Mussolini, e in particolare Galeazzo Ciano (all'epoca ministro plenipotenziario in Cina), costruì con il Guomindang. Tuttavia il tentativo non decollò mai.
Che memoria hanno i cinesi degli italiani del tempo?
Devo dire davvero buona. E questo perché i cinesi non ci hanno mai percepiti come conquistatori. L'Italia, come dicevo, non si è presentata in Cina con grandi imprese, ma solo con un grosso numero di lavoratori. All'inizio del 1900 si contavano più di 2mila italiani attivi alla costruzione delle ferrovie della Cina centro-settentrionale, come d'altronde hanno fatto anche gli immigrati italiani negli Stati Uniti. Di fatto queste ferrovie venivano realizzate soprattutto da belgi e da americani, mentre gli italiani che vi lavoravano erano quasi esclusivamente operai. Possiamo dire dunque che la scarsa presenza di impresa, unita a una discreta presenza di gente comune, hanno garantito ai due popoli una convivenza pacifica. Dagli studi che ho condotto a Tianjin è emerso proprio che, mentre nelle altre concessioni (giapponesi, francesi, inglesi, russe e tedesche) c'era una forte divisione tra indigeni e conquistatori, nella concessione italiana si respirava un clima più internazionale con un alto livello di comunicazione. Questo fece sì che molti intellettuali cinesi scelsero di vivere proprio nel quartiere italiano mostrando, tra l'altro, un forte interesse per il Risorgimento italiano.
C'erano personaggi di spicco?
Assolutamente. C'era ad esempio il nipote di Garibaldi, Menotti, che era un ingegnere e che lavorò alla progettazione della ferrovia. Menotti Garibaldi tornò dopo la Seconda Guerra Mondiale a Tianjin dove cercò di avviare un impresa di costruzione. Tra gli intellettuali ricordiamo Nicola di Giura, che nel 1900 partì per la Cina con la spedizione contro i Boxer come colonnello medico e lì rimase per 30 anni vivendo tra Tianjin e Pechino. Di Giura diventò uno dei più grandi traduttori, nonché medico di Puyi, l'ultimo imperatore che nel periodo del Manchuguo visse a Tianjin. E poi c'erano i missionari che ebbero un ruolo di primo piano. Ricordiamo ad esempio Padre Leonetti, che contribuì alla costruzione della concessione comprando una certo numero di terreni e invitando un ingegnere torinese a recarsi li per progettare nuovi edifici. Si tratta di personalità che hanno contribuito ad accrescere la stima che i cinesi hanno del nostro Paese.
Cosa può imparare l'Italia da quest'esperienza per rafforzare i rapporti bilaterali? Siamo sempre gli ultimi ad arrivare?
A Tianjin non solo siamo stati gli ultimi ad arrivare, ma non siamo riusciti nemmeno a finanziare i lavori. L'Italia, intesa come governo, in questa concessione non ha investito un soldo. L'unica cosa che fece fu concedere un prestito di 400mila lire tramite la Banca Depositi e Prestiti per la costruzione degli edifici pubblici. Prestito che, tra l'altro, è stato poi interamente restituito dagli italiani di Tainjin. L'Italia si mostrò ancora una volta più interessata all'Africa che al Paese asiatico, tanto che non creò nemmeno una linea di navigazione diretta per la Cina come avevano fatto le altre nazioni. E, viste le vicende successive, possiamo dire di aver scontato uno scarso ritorno economico.
di Sonia Montrella
La miniserie verrà presentata giovedì 8 dicembre all'Istituto Italiano di Cultura di Pechino alle 18, in collaborazione con AgiChina24.
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