Intesa finale tra le polemiche
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Intesa finale tra le polemiche

Intesa finale tra le polemiche

Il vertice sul clima - LOTTA AL RISCALDAMENTO GLOBALE
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Adriana Cerretelli
COPENHAGEN. Dal nostro inviato
Si erano affrettati un po' troppo, venerdì sera, Barack Obama e Nicolas Sarkozy a dare per fatto l'accordo di Copenhagen sul clima. Ci sono infatti volute altre 16 ore, nuovi negoziati notturni e molti mal di pancia per riuscire oggi a chiudere la partita. E male.
Non solo l'accordo raggiunto ieri non è giuridicamente vincolante né è chiaro se mai lo diventerà nel 2010, alla nuova Conferenza Onu di Città del Messico. Non possiede nemmeno la legittimità dell'approvazione per consenso generale. Perché non c'era e non c'è. A salvarlo per il rotto della cuffia è stato un contorcimento giuridico: in assenza del placet di tutti, i 193 paesi partecipanti ieri si sono limitati a "prendere nota" dell'intesa, redigendo a latere la lista dei paesi disposti ad accettarla. In questo modo, pur non avendo l'imprimatur unanime, l'accordo potrà diventare operativo facendo scattare già in gennaio l'erogazione dei fondi previsti per i paesi poveri.
Inventato dal ministro inglese Ed Miliband, l'escamotage ha permesso di allontanare lo spettro di un fallimento che sarebbe stato ancora più clamoroso dopo che il presidente americano, prima di lasciare Copenhagen, aveva salutato un accordo ancora virtuale. Che continua a piacere a pochi. Per ragioni di procedura e di sostanza.
Discusso nelle "segrete stanze" della conferenza da un direttorio di 25 paesi (tra cui Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Polonia, Cina, Brasile, Unione africana, rappresentanti delle isole), alla fine è stato imposto dal colpo di mano dei Cinque: dal presidente Obama insieme al premier cinese Wen Jiabao, ai presidenti di India, Brasile e Sudafrica.
Il patto sul clima tra l'America e il fior fiore degli emergenti, la prepotente irruzione sulla scena del G-2 dopo una giornata di apparenti sgarbi e scaramucce bilaterali, in un colpo solo ha avuto l'effetto di marginalizzare l'Europa, disorientare i paesi in via di sviluppo e affondare la credibilità delle Nazioni Unite insieme a tutte le testarde illusioni multilateraliste europee.
Che la leadership ambientalista Ue potesse finire stritolata dall'alleanza sino-americana lo si sapeva da tempo. José Barroso, il presidente della Commissione, ieri ha provato a cavarsela con una battuta: «Noi siamo sempre leader quando c'è da alzare le ambizioni, quando si abbassano no, non ci chiamano nemmeno». Umiliati da un presidente americano idolatrato, gli europei alla fine hanno abbozzato stralunati al nuovo corso eco-politico.
Non altrettanto duttili i paesi in via di sviluppo. «Il nostro futuro non è in vendita. Per noi questo accordo è inaccettabile» ha gridato, quando il testo dei Cinque è stato sottoposto alla rapida approvazione dei 193, il premier delle Tuvalu, tra le tante isole a rischio di sparire, complici le devastazioni climatiche. «Questo è un golpe contro l'Onu, una minoranza di paesi non può imporre un accordo internazionale a tutti», ha denunciato il Venezuela. Con Bolivia, Cuba, Nicaragua, Costarica, tutti decisi a dire no. Come il presidente sudanese del G-77, arrivato a definire «assassini» gli autori del testo assimilandoli a «chi perpetrò l'Olocausto».
Escamotage giuridico, dunque, per neutralizzare il "fronte del rifiuto" e poi fiaccarne la resistenza a suon di aiuti. Già, perché il solo punto dove l'accordo di Copenhagen ha un po' di sostanza è sui finanziamenti. Nell'immediato, nel triennio 2010-12, per i paesi in via di sviluppo e anche per fermare la deforestazione responsabile di un quinto delle emissioni planetarie di CO2, ci saranno 30 miliardi di dollari: 10,6 già stanziati dagli europei e 11 dal Giappone. Solo 3,6 dagli Stati Uniti: l'ennesima beffa obamiana. Gli aiuti cresceranno fino a 100 miliardi all'anno dal 2020. Una manna che non può che far breccia tra i più poveri.
Per il resto nell'accordo niente target né scadenze vincolanti per il taglio delle emissioni, solo riduzioni volontarie e "sovrane" da presentare entro l'1 febbraio. E ovviamente verificabili contando sulle buone volontà "sovrane" più che sui controlli internazionali. Resta l'impegno a bloccare a 2 gradi il riscaldamento del clima ma sparisce l'obiettivo di dimezzare i gas serra nel 2050.
Per l'Europa ambientalista la sconfitta è cocente, anche se senza il parallelo impegno dei massimi inquinatori - Cina e Usa - la sua era un'ambizione insostenibile. E comunque a Copenhagen «un piccolo passo» sul clima è stato fatto, per dirla con Ban Ki-moon, il segretario generale dell'Onu, perché ora tutti i paesi sono della partita. Ben più bruciante è la plateale rotta politica dell'Unione sulla scena mondiale: il legame transatlantico si allenta, Obama guarda sempre più al Pacifico, ai giovani paesi emergenti a scapito dei vecchi amici. A Copenhagen lo ha ribadito con brutalità. Più di quella climatica è questa la sfida mortale che oggi assedia l'Europa.
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Obiettivo 2 gradi
Il testo dell'accordo conferma in via generica che quella del clima «è una delle maggiori sfide di questi tempi». Bisogna arrivare a contenere entro i 2 gradi l'aumento della temperatura entro il 2050: un obiettivo meno ambizioso dell'1,5% chiesto dalle isole-stato (Maldive, Granada, Tuvalu) che rischiano di scomparire.
Decisione sui tagli a gennaio
Non è stata fissata alcuna cifra per le riduzioni di emissioni di anidride carbonica: il testo ha intere pagine di caselle vuote in cui ogni paese industrializzato dovrà mettere per iscritto il proprio impegno di riduzione. I moduli compilati dovranno essere consegnati entro il 1° febbraio. L'Unione europea si presenterà come stato unitario, con una cifra sola per tutti i 27 paesi che la compongono (20% di riduzione).
Aiuti ai paesi poveri
Viene indicato un obiettivo di 100 miliardi di dollari entro il 2020 come finanziamento a sostegno delle tecnologie pulite ai paesi meno industrializzati. Ma il foglio con lo schema dei finanziamenti finora ha solamente tre voci, cioè il pacchetto europeo di 10,6 miliardi entro il 2012, quello giapponese da 11 miliardi e quello degli Stati Uniti da 3,6 miliardi.
Nessun nuovo organismo Onu
Non si parla di creare l'Oma, l'Organizzazione mondiale dell'ambiente che dovrebbe poi verificare – come concordato – che ogni paese mantenga impegni e promesse. Il progetto non è abbandonato: se ne parlerà a Bonn al summit di giugno e alla Cop16 in programma tra un anno a Città del Messico.
J. G.



Chi ha vinto, chi ha perso
A CURA DI Marco Magrini
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La delegazione da Pechino è arrivata in forze, con 270 componenti ufficiali e cento giornalisti al seguito. La Repubblica Popolare aveva già messo sul tavolo la proposta di abbassare, entro il 2020, l'intensità energetica dell'economia cinese fra il 40 e il 45% (ovvero l'impegno di far crescere le emissioni-serra a un ritmo più basso della crescita economica), ben sapendo che sarebbe stata ben accettata: sotto Kyoto, la Cina non aveva alcun obbligo e questa (insieme al più massiccio piano di adozione delle rinnovabili nel mondo) era già una buona offerta.
Dopo essersi impuntata nel respingere la richiesta americana di impegni verificabili, la Cina ha praticamente ottenuto tutto quel che voleva. Le verifiche ci sono. Ma sono verifiche domestiche – si legge nel Copenhagen Accord – soggette a «consultazioni internazionali e analisi sotto linee-guida ben definite che rispettino la sovranità nazionale». I paesi che hanno obblighi sotto Kyoto (non la Cina) dovranno andare avanti secondo i programmi. Inoltre, dall'accordo sono spariti i numeri sui tagli alle emissioni previsti. Pare che anche questo sia avvenuto su richiesta della Cina.
La delegazione americana aveva in serbo per il vertice il colpo di scena più atteso e più invocato: l'apparizione di Barack Obama, il presidente che ha cambiato di 180 gradi la posizione climatica dell'ex primo inquinatore del mondo. Ma anche il paese che ha il doppio dei consumi procapite dell'Europa e il quintuplo della Cina. L'offerta di tagli alle emissioni (il 4% fra il 1990 e il 2020) era misera. Tutti si aspettavano che Obama la alzasse, ma non poteva: il Senato non vuole approvare la legge climatica. Il presidente è venuto a Copenhagen con le mani legate.
L'incapacità di offrire di più, per pure questioni di politica domestica, non ha certo aiutato l'esito del vertice, anzi. Obama non ha accontentato l'opinione pubblica internazionale e si dice che non gli sia piaciuto affatto. John Kerry assicura che il Copenhagen Accord faciliterà il passaggio al Senato della legge Waxman-Markey sul clima. Non si vede come. Ma se davvero i senatori americani si sentiranno rassicurati dalla vacuità del Copenhagen Accord e voteranno quel la legge, l'anno prossimo in Messico potrebbe apparire il vero Obama. La sua scommessa è tutta qui.
L'Unione europea, ormai da molti anni, è la paladina indiscussa del cambiamento climatico. Anche se i suoi stati membri non hanno tutti raggiunto gli obiettivi di Kyoto, è l'unica ad avere un mercato finanziario delle emissioni funzionante (l'Ets) e soprattutto l'unica ad aver sancito per legge l'obiettivo di tagliare i gas-serra del 20% entro il 2020, con l'opzione di salire al 30% qualora ci siano «impegni comparabili» delle altre parti. Così, seppur con l'opposizione interna di alcuni paesi, l'Europa era arrivata al vertice danese con la meritata fama di prima della classe.
L'Europa è la vera perdente di questo vertice. Prima Obama che getta le basi dell'accordo a cinque (con Cina, India, Brasile e Sudafrica) tagliandola fuori. Poi la riunione allargata a 25, dove non era in grado di rilanciare (non c'erano le condizioni, né il consenso interno, per alzare l'offerta dal 20 al 30%) e infine l'accordo finale, approvato a denti stretti e con qualche dramma. Risultato: la sua figura di paladina è stata snobbata.
E la sua filosofia ambientale ,a sostegno di Kyoto e del mercato delle emissioni, ne è uscita inevitabilmente bistrattata.
L'India è arrivata al vertice in assetto difensivo, ma con la proposta di abbassare la propria intensità energetica al 2020 del 20-25 per cento. Il Brasile, che ha molto da guadagnare con i fondi che arriveranno per lo stop alla deforestazione, portava però l'impegno coraggioso di tagliare le emissioni oltre il 30%, anche grazie al suo primato nei biofuel. Il Sudafrica, dove la crescita economica non è altrettanto galoppante, era in disparte. La Corea del Sud (che per Kyoto è ancora un paese emergente) si è ormai convertita alla green economy.
India, Brasile e Sudafrica sono stati fra i playmaker dell'accordo, nato a un tavolo di trattativa dove sedevano anche Wen Jiabao e Barack Obama. Otterranno sicuramente parte dei fondi stanziati, ma non escono comunque da trionfatori. L'India ha già detto che non si impegnerà comunque a ridurre le emissioni. Il Brasile puntava più su un vero successo del vertice che non su questo risultato annacquato. Semmai la vera vincitrice è l'Arabia Saudita, che aveva tutto l'interesse a frenare un trattato internazionale per la riduzione nei consumi di combustibili fossili.
I Paesi poveri come il Burkina Faso o la Tanzania, le isole-Stato come le Maldive o Tuvalu, e le economie in mezzo al guado come l'Indonesia o l'Argentina sono tutte arrivate al vertice danese con la speranza di ricevere. Ricevere fondi, tecnologie pulite, assistenza, investimenti. Ma c'è stato un errore tattico. Il gruppo G77 (che raccoglie 130 paesi in via di sviluppo, inclusa la Cina) ha nominato portavoce il sudanese Lumumba Di-Aping, protagonista delle più belle conferenze stampa ma anche protagonista di uscite estremiste, inappropriate e imbarazzanti.
I 30 miliardi di dollari che sono stati assicurati per il triennio 2010-2012 e i 100 miliardi di dollari ancora da «mobilitare» – come recita l'accordo – che saranno versati ogni anno dal 2020 in poi, sono parecchi soldi (la metà di quanto inizialmente ventilato) che finiranno per finanziare opere per la protezione dai cambiamenti climatici e la diffusione di tecnologie per l'energia pulita nei paesi in via di sviluppo. Ma per i paesi più a rischio (come le famose isole-stato del Pacifico) non è scongiurato il rischio di vedere un giorno le loro terre andare sott'acqua.
Il mondo è arrivato a Copenhagen con mille speranze. Una su tutte: quella di vedere, forse per la prima volta nella storia, la comunità internazionale concordare su una questione che non riguarda più i confini o le aree di influenza. Bensì l'unica cosa che tutti i paesi del mondo condividono: l'atmosfera. Non a caso Sir Nicholas Stern, l'economista che ha redatto l'omonimo rapporto sui costi del cambiamento climatico, aveva definito il trattato che sarebbe dovuto uscire da Copenhagen come «il più importante dal dopoguerra».
Il mondo è uscito da Copenhagen con mille delusioni. Gli specialisti della materia, ovvero gli ambientalisti, parlano chiaro. «Un testo crudo dai contenuti poco chiari», dice il Wwf. «Gettata al vento la storica opportunità di evitare il caos climatico», dice Greenpeace. «Historic cop out», gioca Oxfam (Cop è il nome in gergo di questi vertici e cop out in inglese vuol dire «non prendersi responsabilità»). Ma c'è di peggio. Gli scienziati dicono che con queste pallide e incerte decisioni contenere l'aumento della temperatura media entro i 2 gradi sarà sempre più difficile.

20/12/2009
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