Milano, 16 giu. - La crescita dell'inflazione in Cina è ormai al centro del dibattito internazionale. L'indice dei prezzi è, infatti, aumentato a maggio del 5,5%: un dato che non si registrava da 34 mesi (questo articolo). È tuttavia il valore più basso tra i Paesi del BRIC: in Brasile, l'inflazione è infatti al 6,6%; in Federazione Russa al 9,6% e in India al 9,1%. Contestualmente, la domanda di beni di consumo continua a crescere a un ritmo ben superiore al 10% annuo e l'export del Dragone ha registrato, anche in questi mesi, livelli record. Quali sono dunque i motivi di una così grande attenzione alla dinamica dei prezzi del Dragone?
Da un lato, i Paesi occidentali temono che, all'aumentare dell'inflazione, si riduca quella formidabile spinta per le economie sviluppate conseguente all'incessante crescita della domanda dei consumatori dell'ex impero di mezzo. In questa prospettiva, per molte imprese delle cosiddette economie evolute, verrebbe a svanire la speranza di riagganciare la ripresa grazie all'effetto di trascinamento giocato dalla Cina – ormai seconda economia mondiale ma già primo mercato per molte categorie merceologiche e beni di investimento -.
Per il Governo cinese, si tratta, d'altro canto, di una vera e propria ossessione. La parola d'ordine del Politburo è: controllare l'inflazione a tutti i costi. In particolare, gli esponenti del Partito Comunista temono che una crescita eccessiva dei prezzi diventi foriera di tensioni sociali nelle campagne: ovvero in quel tessuto sociale - costituito da centinaia di milioni di persone - particolarmente colpito dal fenomeno della crescita dei prezzi di prodotti alimentari (per la carne di maiale anche del 40%), che costituiscono del resto la quasi totalità del basket di acquisto di questi individui.
Per contrastare il fenomeno, sono state ripetutamente varate negli ultimi mesi misure volte ad aumentare le riserve che le banche devono obbligatoriamente detenere presso la Banca centrale (così da diminuire la liquidità in circolazione) e aumentati i tassi di interesse. Pur trattandosi di interventi molto tempestivi , che hanno ridotto la liquidità in circolazione – tanto che le piccole imprese cominciano a manifestare problemi di accesso al credito (problema che solo un anno fa appariva sconosciuto) -, li ritengo non sufficienti. La propensione al consumo dei giovani cinesi è molto superiore a quella dei loro padri; paradossalmente la dinamica inflattiva rappresenta una ulteriore spinta per effettuare acquisti – innescando così una spirale di continua crescita dei prezzi -.
È pertanto inevitabile, a mio avviso, che il Politburo si orienti verso una progressiva rivalutazione del Renminbi; si tratterebbe di una misura in grado di calmierare la dinamica dei prezzi delle materie prime e dei componenti/prodotti importati: contribuendo così in misura significativa a un contenimento della dinamica inflattiva. Alcuni sostengono che questo determinerebbe una perdita di competitività delle imprese cinesi – da sempre votate all'export -. A mio modo di vedere, questo è vero solo in parte: per almeno due ragioni. Il dodicesimo Piano Quinquennale ha sancito il passaggio da un modello industriale low cost a un sistema di produzione orientato all'innovazione e alla costruzione di brand di rilevanza internazionale: in entrambi i casi, un rafforzamento della valuta non dovrebbe pertanto impattare in misura determinante sulla competitività delle imprese locali. Anzi, potrebbe rappresentare un ulteriore stimolo per accelerare il percorso di cambiamento così fortemente voluto dal Congresso del Popolo (riunitosi in assemblea annuale a marzo di quest'anno). In secondo luogo, una rivalutazione del Renminbi si rivelerebbe molto coerente con quel percorso, più volte paventato dalla banca centrale cinese, di progressivo avvicinamento ad una valuta pienamente convertibile su scala internazionale, in grado quindi di contrastare il predominio attuale del dollaro americano.
La strada mi sembra, in questo senso, obbligata; meglio tutelare il potere di acquisto delle famiglie, pagando un prezzo in termini di una certa mortalità delle imprese meno efficienti, che andare incontro ncontro a tensioni sociali che potrebbero pregiudicare tutto il percorso della riforma Denghista.
Sarà indubbiamente determinante la tempistica con cui avverrà questo processo di rivalutazione; onde evitare di incorrere nello stesso errore dei giapponesi, che a fine anni novanta hanno troppo rapidamente rafforzato lo Yen, sarà inevitabile procedere con gradualità – nella prospettiva di gestire i delicati equilibri economici e sociali interni -. Insomma, alla cinese, occorre determinazione e perseveranza nell'affrontare una strada – certamente nuova – ma ineludibile per una Cina, che aspira a diventare prima potenza al mondo sul fronte economico, finanziario e politico.
di Giuliano Noci
Prorettore del Polo Territoriale Cinese del Politecnico di Milano
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