In Cina si chiude il « low cost cycle» - Car maker al bivio
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In Cina si chiude il « low cost cycle» - Car maker al bivio

In Cina si chiude il « low cost cycle» - Car maker al bivio

Scenari. Uno studio di Roland Berger
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Forse non sarà la fine di un ciclo, ma senz'altro la Cina si trova alla vigilia di un passaggio epocale: gli stipendi si alzano, la popolazione invecchia, i costi di produzione aumentano. Morale: l'industria dovrà cambiare pelle, trasferendo altrove le lavorazioni di massa a scarso contenuto hi-tech (destinate per lo più all'export) e lasciando nel Paese le attività di ricerca e quelle produzioni ad alto valore aggiunto ormai richieste dal mercato domestico, sempre più vicino agli standard occidentali.
La rivoluzione è già partita, e «c'è da fare in fretta», avverte uno studio diffuso a inizio gennaio da Roland Berger. L'avviso ai naviganti vale per tutti, ma per l'auto, che dagli anni 90 ha fatto della Cina uno dei suoi principali hub mondiali, ha una valenza doppia: nel settore i programmi sono pluriennali, i grandi car maker si portano dietro i componentisti di fiducia e il fattore costi mantiene un ruolo determinante. «La multinazionali che negli ultimi anni hanno delocalizzato alcune delle loro produzioni in Cina dovrebbero riprendere in considerazione le loro strategie produttive», dice Thomas Wendt, di Roland Berger: «In questo momento le ragioni che hanno spinto verso Est stanno scomparendo, e la crescita progressiva dei costi sta erodendo progressivamente la competitività del sistema Paese».
Conti alla mano, nell'area di Shanghai, ha calcolato Roland Berger, il costo per un'ora di lavoro delle tute blu è quasi triplicato, salendo dagli 1,2 dollari del 2002 ai 3,1 del 2009; livelli più bassi ma crescita ancora più alta nella provincia dello Henan, dove da 0,4 dollari l'ora si è saliti a 1,6. Guardando all'intera Cina, tra il 2002 e il 2009 la crescita media annua dei salari è stata pari al 17%, più che doppia rispetto a quella di un Paese competitor come le Filippine (+8%); non a caso, nel decennio scorso Pechino ha superato Manila, dove a fine 2009 il costo orario era di 1,2 dollari, 60 centesimi in meno del rivale cinese.
In pratica, la Cina si sta occidentalizzando più in fretta del previsto. E se da un lato c'è quella che in ambienti sindacali viene chiamata «la globalizzazione dei diritti», dall'altro lo scenario sta mutando così rapidamente da richiedere contromosse immediate da parte di chi sulla Cina ha basato le proprie strategie produttive. «Alcuni settori che in passato hanno avuto ruoli chiave, come quello tessile – dice ancora Wendt – ormai stanno per entrare in fase di declino. Discorso diverso, invece, per l'elettronica, i componenti hi-tech e l'auto, per cui vediamo ancora interessanti prospettive di espansione». Purché, avverte Roland Berger, i produttori sappiano cogliere appieno la metamorfosi del sistema industriale del Paese e del suo mercato.
Un messaggio che vale per tutti, a partire dai grandi car maker e dai loro (ambiziosi) piani di espansione nel Paese: se Fiat-Chrysler deve ancora prendere le misure della partnership con Guangzhou Automobile, nel Paese entro il 2012 – sottolinea Roland Berger – dovrebbero partire i nuovi maxi stabilimenti di Volkswagen (300mila vetture, a Guangzhou), Peugeot Citroën (per quest'anno sono attesi due nuovi siti, a Shenzhen e Wuhan, da 400mila vetture l'anno in totale), Bmw (100mila auto a Shanyang), Toyota e Gm, entrambe presenti a Changchun con una capacità produttiva di 200mila veicoli a testa.
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24/01/2012
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