In Cina il modello dell'antica Roma
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L'ORGOGLIO DI ESSERE ITALIANO - 15 - Straniero nel Paese del Dragone
di lettura
Credevo fosse pazzo, o mi prendesse in giro. Quando Xu Guodong, a Pechino all'inizio del 1988, mi disse che lui stava studiando diritto romano e voleva studiare italiano, me lo feci ripetere due volte, pensavo di non avere capito bene. «Perché», gli chiesi. e senza aspettare la risposta aggiunsi: «Sei sicuro? A che serve?».
Eravamo alla Scuola superiore dell'Accademia delle scienze sociali cinesi, ero il primo studente straniero mai ammesso lì. Per i miei colleghi di lì, scelti uno a uno, per diventare la futura classe dirigente del Paese, ero una curiosità quasi da circo. Tanto più perché ero italiano ma venivo dall'università di Londra, avevo studiato cinese ma lo parlavo a fatica mentre conoscevo discretamente la mia strada tra i libri antichi e il cinese classico, su cui avevo faticato per anni.
Allora il cinese classico in Cina non lo studiava quasi nessuno. Pochissimi dei miei compagni avevano avuto contatto con degli stranieri ed ero una specie di mascotte involontaria: «Tutti gli stranieri erano come me?» chiedevano, intendendo che ero bizzarro.
Dal canto mio, pensavo di essere originale e certamente poco italiano. Cresciuto negli anni 60 e 70, quando l'idea di patria pareva legata a quella di fascismo, credevo che il massimo della vita fosse uscire dai confini e cercare di prendere un'altra identità. Per questo la dichiarazione di Xu Guodong fu uno schiaffo in faccia. Mentre io cercavo di scappare dall'Italia c'era un cinese che voleva andarci e per di più era interessato a studiare una parte a me assolutamente sconosciuta della mia eredità storica.
Xu, infatti, mi spiegò che la Cina voleva riformare il suo sistema legale e quindi voleva studiare il diritto occidentale, ereditato da quello romano. Lui così avrebbe imparato latino, diceva, ma prima sarebbe dovuto passare dall'italiano che era più facile e strumento di apprendimento della lingua antica. L'Italia insomma era la base della cultura dell'Occidente e per i cinesi, quasi religiosamente storicisti, la storia romana era la base di tutta quella occidentale.
Per me fu un tuffo nel passato e un capovolgimento di mille ragioni e motivi. L'Italia di cui non capivo l'importanza in patria cominciava a prendere senso a Pechino in quel tempio di formazione. Tra quegli studenti che avrebbero dovuto guidare la Cina nel futuro, una parte si proiettava verso l'America e le ricette quasi immediate che avrebbe potuto offrire al Paese, ma un'altra andava più in là, più in fondo.
Pensavo però che Xu con la sua attenzione per l'Italia fosse un'eccezione, una bizzarria, quasi una specie di mio riflesso in quel mondo. Ma solo qualche giorno dopo un altro studente, Lu Xiang, mi chiese se, visto che avevo studiato latino (si era sparsa la voce), mi poteva fare una domanda.
Il latino non era stato il mio forte al liceo e temevo questioni impossibili. Cercai di sottrarmi per evitare figuracce, ma lui prese le mie rimostranze per modestia e pressò con una domanda filosofica: «Quale era la differenza tra quidditas e substantia?». Mi sentii come se avessi vinto un terno al lotto perché sapevo la risposta, capendo anche che Lu Xiang studiava filosofia scolastica, e anzi faceva la tesi su San Tommaso D'Aquino.
L'interesse per l'Italia era allora - e anche più tardi – molto più generale di quanto immaginassi, e c'erano mille spunti; il Rinascimento, il Risorgimento, fino a Gramsci o a Togliatti, di cui i giovani comunisti cinesi dicevano: abbiamo sbagliato a criticarlo negli anni 50, così come – dicevano ancora – abbiamo sbagliato a criticare Antonioni per il suo documentario Chung Kuo del 1972.
Avrei dovuto essere orgoglioso di essere italiano, mi dicevano i miei colleghi cinesi e per molto – certo troppo figlio della cultura del mio tempo – pensai che quelle fossero solo cortesie, quasi cineserie senza sostanza. Comunque, servirono a cominciare a farmi pensare molto all'Italia e all'orgoglio di essere italiano.
Allora gli stranieri erano pochissimi, quelli che parlavano cinese ancora di meno, ma se non erano americani (come, secondo la vulgata del tempo, dovevano essere quasi tutti) ed erano italiani, il primo pensiero andava a un signore per me misterioso. Non era Marco Polo (allora sconosciuto ai più) ma a Li Madou, alias padre Matteo Ricci, un sacerdote di cui i cinesi cantavano le glorie.
La mia vera conversione all'orgoglio italiano arrivò qualche anno più tardi, come accade ai genitori italiani, più tradizionali, con i figli piccoli. Mia figlia più grande, Nanna, alla domanda «di dove sei?» rispondeva «italiana» e sembrava che nel pronunciare quelle quattro sillabe «yi-da-li-ren» si alzasse in punta di piedi e si gonfiasse il petto.
Avrebbe dovuto bastarmi. Anzi, era già troppo per farmi pensare da dove arrivavo, se non fosse che Nanna mi disse della piccola, Maria, quasi a giustificarsi: «Maria se le dici che l'Italia è piccola, che ci sono i ladri, che qualcosa non funziona, insomma se le dici cose cattive, si mette a piangere e si arrabbia. Se invece le dici che l'Italia è bella, ricca, allora è contenta».
Chi aveva loro insegnato tutto questo? Certo non io: allora ero ancora imbarazzato dall'incertezza di come considerare le bimbe, se italiane come me o cinesi come la madre. Erano stati la scuola e l'asilo cinese che avevano dato loro un orgoglio della patria profondo, per la cultura, per la loro identità. Fu quell'orgoglio delle bambine che più di ogni altra cosa mi ridiede identità e senso di appartenenza.
Per il resto, come sono finiti i primi due motori della mia storia? Lu Xiang oggi è professore al Dipartimento di studi americani dell'Accademia delle scienze sociali e Xu Guodong è uno dei romanisti più illustri della Cina, preside della facoltà di diritto all'Università di Xiamen.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 15ª puntata
Le precedenti sono state pubblicate il 7, 8, 10, 11, 12, 14, 17, 20, 21, 22, 24, 27, 28 e 29 agosto

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10/09/2011
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