Pechino, 05 lug. – Fino a che non inizi a usare una bicicletta a Pechino, non capisci perché la gente che pedala tutti i giorni non possa più farne a meno. È così comodo avere la bici a Pechino, e tu pensi "ma veramente io preferisco tornare a casa intera", è per questo che i paurosi come me ci mettono un po'. Come struttura, Pechino è perfetta per girare in bicicletta. A quadrati, facile orientamento, e piste ciclabili dappertutto. Quello che mi ha sempre bloccata in questo non è infatti la città, ma i suoi ridenti, sorridenti, pericolosissimi abitanti. Alcune regole del traffico cinese volevano conferme definitive e oggi, durante il mio lungo giro in bicicletta, ne ho confermate due.
Teoria n. 1: è assolutamente inutile, se non pericoloso, essere troppo previdente. Ad esempio, se stai aspettando fermo perché il veicolo davanti sta facendo manovra e tu, prudentemente, decidi di lasciarlo finire prima di passare, provocherai solo una possibilità di urto con chi arriverà dietro di te e cercherà di infilarsi nello spazio tra te e il veicolo davanti. Teoria n. 2: ogni spazio vuoto verrà riempito, logica conseguenza della teoria n.1. Distanza di sicurezza: ma non fatemi ridere. Davvero. La distanza qui, più che di sicurezza, è di pericolosità: lasciane un po', e stai a vedere. In cinese c'è anche un'espressione che si studia sui libri di scuola e che si traduce letteralmente 'infilarsi in ogni spazio a destra e a sinistra': ossia, riempire ogni spazio vuoto disponibile tra te e chi ti sta di fianco, in qualsiasi momento. Se lo scrivono anche sui libri di testo della quinta lezione di cinese per principianti, un motivo ci sarà. Riflessi della società sulla lingua, evidentemente.
Ciò detto, mentre pedalavo verso il centro in un tardo pomeriggio di prima estate, sono stata presa dalla voglia di sperimentare in bicicletta un giro che tempo fa avevo fatto a piedi, ben consapevole che avrei dovuto attraversare punti in cui la distanza di sicurezza... vedi sopra. Vi presento, intanto, la mia bicicletta: una Shanghai "Forever" antidiluviana, freni a bacchetta, ormai più ruggine che vernice. È la classica bicicletta che non ti rubano, ma a me piace così tanto, me l'ha lasciata un amico quando è andato via da Pechino. Più che un amico, un membro della mia famiglia allargata. La nostra Shanghai "Forever" è senza campanello, il che mi fa pensare a quanto in realtà sia dolce il suono dei campanelli delle biciclette: un rumore che spero non si estinguerà, almeno nelle strade che non sono ancora state trasformate dall'andare del tempo. Se chiudo gli occhi le immagino, le biciclette del tempo che mi precede. Un'onda di biciclette, guidate da uomini e donne vestiti in maniera non troppo diversa, a onor della parificazione dei sessi: pantaloni, camicie e scarpe di cotone grezzo, leggeri sorrisi e chiome di capelli neri in movimento. E lo scampanellio, piacevole compagno di viaggio di una città che ha cambiato faccia troppo in fretta. Troppo. Infatti, appena mi scrollo di dosso queste immagini in bianco e nero di ricordi che vorrei aver vissuto, mi ritrovo in mezzo al traffico metropolitano e all'assenza di spazio per muoversi liberamente.
All'inizio del mio percorso, mi chiedo se ho avuto una buona idea: attraversare i due grandi incroci di Dong Zhi Men e Dong Si Shi Tiao, seppur non realmente pericoloso (ci sono, appunto, piste ciclabili a bordo strada), non è il massimo per lo spirito: clacson, clacson, clacson, che fastidio... Fumo delle macchine, che fastidio. Il troppo rumore copre anche la colonna sonora del momento, che pure è al massimo volume: un reggaeton cubano decisamente ritmato. Ma procedendo verso ovest la situazione migliorerà. Lo so, e vado avanti con ottimismo insieme alla mia colonna sonora. Mi infilo in uno degli hutong che da Dong Si Shi Tiao corrono perfettamente orizzontali verso ovest, verso la zona che ancora resta un rifugio per chi è stanco del centro, dei suoi locali, dei suoi rumori, della sua vitalità assordante. È vero, piano piano passa. Pechino ha questo potere, ti fa fare non solo dei viaggi nello spazio, ma anche nel tempo: esistono ancora tante zone in cui se ti giri a 45 gradi sei nel 2010, e a 46 sei già qualche anno più in là. E da qui si verso ovest si può ancora percorrere qualche chilometro della Pechino che era.
Piano piano quindi, il clima si rilassa, e i rumori diminuiscono. Finché lo hutong collegato alla strada principale, addentrandosi all'interno, si riempie anche di alberi e cessa ogni rumore. Magicamente, anche la colona sonora cambia: parte una pizzica salentina, dolce, dolcissima, il tamburello in sottofondo segna il ritmo delle mie pedalate, che d'un tratto si fa più lento, in armonia con l'ambiente. Sembra che la musica e il paesaggio viaggino insieme, insieme al vento caldo che corre sulle braccia scoperte. Vedo le vie brulicanti di gente, in una pace invidiabile. La gente è tanta, ma ha degli sguardi beati. Non si danno fastidio gli uni con gli altri, si godono la serata ognuno a modo suo: chi giocando a carte o a scacchi, chi portando a spasso i bambini, chi chiacchierando con il vicino di casa, chi leggendo un libro, chi parlando al telefono, chi passeggiando facendosi aria con un ventaglio. L'estate è arrivata e la vita della città d'estate non sarebbe la stessa senza gli hutong e la loro gente. Solo qui si può vedere come gli abitanti di Pechino godono di ciò che la loro città offre: una cosa molto preziosa, la socialità permessa dalla sua struttura. Le case di una volta sono tutte a un solo piano, le porte d'ingresso danno direttamente sulla strada, e tutto diventa una comunione di sensazioni, di vita quotidiana. Concetto ormai estraneo nelle nostre cittadine di provincia, figuriamoci nelle metropoli. È questo quello che rende affascinanti molte metropoli asiatiche, seppur con tutti i loro problemi: sei in metropoli, ma ritrovi, ad un batter di ciglio, il paesino che ci raccontavano i nostri nonni. Ai nostri nonni piacerebbero queste scene, ne sono sicura.
Continuando a pedalare, perdo il conto di quante canzoni mi sono già scivolate nelle orecchie e non posso non cercare di ricreare, con dei ricordi che non ho, l'idea della pace che doveva regnare quando Pechino era tutta così: immagino la pace dei vecchietti che stanno ancora oggi seduti sui microscopici sgabelli pieghevoli fuori dall'uscio di casa. Quei vecchietti sono i giovani di allora, e sarebbe impagabile un viaggio nei loro ricordi. Purtroppo, non posso farlo. Posso solo continuare a pedalare e respirare una tranquillità ancora autentica anche se circondata dal caos, sperando che i piani di revisione urbanistica come per magia si dissolvano. In quel momento mi piace credere che le magie esistano a Pechino, e non solo sottoforma di maghi della pioggia. Pedalo e osservo, pedalo e immagino, pedalo e non penso più a niente, se non una cosa: non toccate più Pechino. La modernità vibrerà nel Central Business Disctrict, ma il suo cuore batte qui.
Elisa Ferrero
Elisa Ferrero, sinologa classe 1978, laureata in Lingue e Letterature straniere all'Università di Torino, 10 anni dal primo ingresso in Repubblica Popolare Cinese.
La lingua cinese mi appassiona ormai da 10 anni, ma parlo con piacere anche l'inglese, lo spagnolo e il francese, sperimentati tutti in varie fasi della vita.
Una forte attrazione per Pechino nata dal primo giorno mi ha portata a viverci, studiando prima e lavorando poi, dal 2004 al 2007. Vivo nuovamente qui da maggio 2009.
Gli stimoli derivanti dalla conoscenza di diverse lingue straniere e da una propensione per esperienze di carattere internazionale sono molteplici. E' da questi che nasce in me la ricerca continua della condivisione della realtà con le persone lontane. La scrittura e la fotografia, i mezzi che più uso per farlo.
La rubrica "Lettere dalla Cina" ospita gli interventi di giovani italiani che vivono e lavorano in Cina, offrendo spunti di vita quotidiana e riflessioni originali. Andrea Bernardi, Corrado Gotti Tedeschi, Elisa Ferrero e Gianluca Morgese.