IMPRESE CINESI ALL'INDICE DI SOSTENIBILITA'

Shanghai, 25 feb. - L'atteggiamento delle istituzioni cinesi nei confronti di qualsiasi tentativo proveniente da fonti esterne, di disciplinare l'attività delle proprie imprese, è sempre stato sospettoso. Il campo delle questioni attinenti la protezione dell'ambiente e in particolare i cambiamenti climatici, ha rappresentato l'arena dove questa prova di forza tra la Cina e resto del mondo, si è giocata con maggior vigore. Oggetto della disputa gli standard di sostenibilità. Nati con un approccio volontario dalla convergenza tra governi, imprese e società civile, questi insiemi di norme che regolano la pluralità di temi che rientrano nel campo della sostenibilità (le ricadute ambientali e sociali legate all'attività delle imprese), costituiscono ormai l'ossatura di un sistema di governance della sostenibilità su scala globale, cui è sempre più difficile sottrarsi.
L'approccio cinese ha origine nel timore diffuso che regole, nate e pensate in occidente, mal si adattino alle specifiche condizioni locali, rischiando di penalizzare le imprese. Ad aumentare i timori è poi la scarsa familiarità della terra di mezzo con iniziative nate su base multistakeholder. La chiusura non è stata però totale, e la Cina ha piuttosto esercitato nel tempo la propria libertà di scelta, selezionando di volta in volta, quali regolamenti, accettare o meno. In molti casi alla fine ha prevalso una commistione di logica politica e calcoli economici che hanno giustificato l'adesione cinese ad iniziative come il Global Compact, la Global Reporting Initiative (GRI) o a standard di settore quali il Forest Stewardship Council Principles. In altri casi ancora la Cina non ha ritenuto di poter scendere a patti con regole scritte da altri e si è quindi messa a produrre i propri standard, guidelines, regolamentazioni su base settoriale o meno e con valenza locale e nazionale.
Ma se le ragioni della politica internazionale hanno in passato garantito alla Cina la possibilità di esercitare l'opzione di scelta verso la rete della "soft power" della sostenibilità, il ruolo di primo piano acquisito dal paese sulla scena economica mondiale non consente alle aziende cinesi di sottrarsi alla misurazione delle performance, economiche e non che siano. Se i numeri parlano da soli, le cose si complicano quando ad essere misurate sono le prestazioni nelle aree relative alla sostenibilità, che si sostanzia nella triple bottom line costituita dall'incrocio tra performance in campo ambientale sociale ed economico.
Compito, questo, generalmente affidato agli indici che forniscono informazioni utili ad orientare le scelte di portafoglio dei grandi fondi etici internazionali, permettono alle aziende di misurare i progressi raggiunti nel campo della sostenibilità grazie alla comparazione con i propri pari, e danno agli stakeholder dati che consentono di operare scelte più consapevoli.
Quello recente non è da ricordarsi però tra i periodi d'oro per gli indici di sostenibilità. Accusati da molti di aver contribuito a creare quel gioco di specchi che ha permesso a casi, non ultimo quello di BP (ricordiamolo azienda indicata come leader nel proprio settore da indici come il Dow Jones sustainability Index e FTSE4Good) di prodursi, gli indici sono al momento sotto stretta osservazione. A conferma di ciò, un'interessante ricerca dal significativo titolo "Rate the Raters" avviata dal think tank londinese SustainAbility e che ha tra gli altri, lo scopo di fare chiarezza in quel complesso e magmatico universo di valutazioni, classifiche, indici, sottolineandone limiti e criticità.
Tra i difetti maggiori attribuiti agli indici di sostenibilità si fa riferimento alla scarsa trasparenza nelle metodologie di misurazione e la comparazione di imprese appartenenti a settori ed aree geografiche troppo diverse tra loro. Proprio quest'ultimo aspetto della localizzazione è all'origine di una serie di iniziative con focus geografico, prodottesi negli ultimi anni nel mondo.
L'area asiatica ad eccezione del Giappone è oggetto di uno standard sviluppato dal provider di indici internazionale ASRtm con la collaborazione di CSR Asia. Da Hong Kong arriva un indice di sostenibilità che ha scelto la Cina continentale e l'ex dominio britannico come palcoscenico delle proprie analisi. Il Hang Seng Corporate Sustainability Index, valuta le performance ambientali e sociali, con un occhi di riguardo alla corporate govenance e alle pratiche di salvaguardia dei lavoratori.
La difficoltà a reperire le informazioni necessarie – pubbliche e solitamente disponibili sui siti delle aziende, negli annual e sustainability report o nelle presentazioni agli investitori – rende però il rating di aziende cinesi più complesso rispetto al resto del mondo. A confermarlo è Aldo Bonati, responsabile della ricerca di Ecpi, società specializzata nella creazione di indici di sostenibilità e che ha da pochi mesi raggiunto un accordo con CSI (China Security Index), joint venture tra i due maggiori centri del comparto bancario e azionario cinese, la borsa di Shenzhen (SSE) e quella di Shanghai (SHSE), per la creazione di una serie di strumenti per la misurazione delle performance di sostenibilità in Cina. Il primo nato della famiglia, è un indice (CSI ECPI, appunto) che seleziona tra le 100 società che hanno già assolto alle richieste espresse dalle guidelines emesse dalle borse di Shenzhen e Shanghai. "La metodologia utilizzata per la stesura dell'indice è quella standard" – spiega Bonati- " ma si sono resi necessari alcuni adattamenti al contesto cinese".
Ad essere presi in considerazione sono stati solo indicatori extrafinanziari suddivisi in due categorie. Le informazioni statiche, costituite da dati pubblici che verosimilmente si mantengono inalterati nel tempo e informazioni soggette a maggiore dinamicità, fornite da una rete di fonti locali, e che di solito riguardano possibili condizioni di criticità delle aziende oggetto dell'analisi quali ad esempio settlement aperti o incidenti di vari natura avvenuti.
"In condizioni normali, quest'ultimo tipo di informazione viene prodotto da fonti qualificate, agenzie di stampa e information providers, insieme ad altre individuate sul territorio nel tempo come Ngo locali con comprovata esperienza e presenza sul campo o altri tipi di organismi - commenta Bonati - per la Cina, la difficoltà di reperire informazioni attendibili ci ha costretto a ampliare il numero e la tipologia degli attori consultati per poter reperire un livello accettabile di informazioni. Un ulteriore aggiustamento si è reso necessario per quanto riguarda gli indicatori su temi come i diritti umani e quelli dei lavoratori.
Generalmente la presenza di un commitment da parte del management dell'azienda viene valutata attraverso l'adesione a dichiarazioni ufficiali emanate da organismi internazionali come il Global Compact o da organizzazioni non governative quali Amnesty International. In Cina, per necessità di benchmark il criterio di comparazione si è mantenuto inalterato, ma si è reso necessario individuare documenti alternativi di natura locale che facessero riferimento al rispetto dei diritti umani e dei lavoratori, e che fossero assimilabili a principi universali promossi dalle organizzazioni internazionali".
di Nicoletta Ferro
Nicoletta Ferro è Senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei
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