IL POTERE DELLA LINGUA, LA LINGUA DEL POTERE

Roma, 28 gen. - Il 1 gennaio 2001 entrava in vigore la Legge sullo standard del cinese scritto e parlato. Il 20 gennaio 2011, in occasione del suo decimo anniversario, un membro del Consiglio di Stato ha reiterato la necessità della diffusione e normalizzazione della lingua sul territorio cinese. Liu Yandong ha infatti sostenuto che l'uso del cinese standard "è di vitale importanza per la diffusione della cultura cinese, per migliorare il soft power del Paese, per l'unità nazionale e per l'unione tra i gruppi etnici". L'intervento della consigliera, che ricalca quasi pedissequamente quanto contenuto nel decreto legge del 2001, merita forse qualche riflessione alla luce di alcuni elementi quali, innanzi tutto, l'autorevolezza di Liu Yandong, il riferimento al soft power ed infine il fatto che l'intervento si inserisce in un delicato contesto di tensioni sociali.
Liu Yandong
La signora Liu, classe '45, è forse al momento la donna più potente in Cina. Prima di essere un consigliere di Stato, è infatti membro del Partito comunista e dal 2007 è entrata a far parte dell'Ufficio politico del Comitato Centrale, l'organismo che supervisiona e controlla l'operato del PCC e di cui fa parte una ristrettissima cerchia di fedelissimi. Liu Yandong fa anche parte della cosiddetta "cricca dell'università Qinghua", che comprende esponenti politici di spicco come Hu Jintao e Xi Jinping e che solitamente è indicata come l'ala riformista e pro-democrazia del Partito. Nel suo intervento, oltre a responsabilizzare i governi locali sulla questione linguistica, la consigliera ha invitato a intensificare gli sforzi per portare la lingua e la cultura cinese nel mondo e rafforzare così il soft power nel Paese.
La Legge sullo standard del cinese scritto e parlato
La legge, approvata dalla IX Assemblea nazionale del popolo e sottoscritta dall'allora presidente Jiang Zemin, riconosce, nel Putonghua (lett. lingua comune), lo standard della lingua cinese parlata, e nei caratteri semplificati lo standard da seguire nello scritto. La legge concede altresì ai gruppi etnici cinesi la "libertà di usare e sviluppare la propria lingua scritta e parlata" il cui impiego, però, deve essere "in conformità con le disposizioni in materia contenute nella Costituzione, nella Legge sull'Autonomia nazionale e regionale e altre" (Cap. I, art. 8). Quest'ultima parte lascia spazio a molte interpretazioni così come quanto affermato più avanti dove, negli artt. 9 e 10 si decreta che il Putonghua e i caratteri standardizzati debbano essere utilizzati dagli organi di Stato e come lingua ufficiale nell'istruzione a tutti i livelli "ad eccezione di dove previsto altrimenti dalla legge". Ancora, nella Costituzione si legge che "ogni nazionalità è libera di impiegare e sviluppare la propria lingua e scrittura, è libera di preservare o modificare i propri usi e costumi" (Cap. I, art. 4).
Chi ha paura del soft power?
Il concetto di "soft power", sviluppato da Joseph Nye a partire dagli anni Novanta, si riferisce all'abilità di un Paese o di un'entità politica di acquisire prestigio, persuadere e attrarre altri attraverso risorse intangibili come la cultura, i valori politici e la diplomazia. L'espressione ha avuto molto successo sia fuori che dentro la Cina, tanto che "soft power" è divenuta oggi una delle parole chiave della Repubblica Popolare. L'ha consacrata lo stesso Hu Jintao, in un intervento al 17esimo Congresso del Partito il 15 ottobre 2007. In quell'occasione, in qualità di segretario del PCC, Hu aveva affermato che si doveva "promuovere la cultura come parte integrante del soft power (ruan shili) del nostro Paese al fine di garantire meglio i diritti e gli interessi culturali fondamentali del popolo". Vero è che se la parola piace tanto ai cinesi, incute preoccupazione all'estero, dove in questi anni si guarda con sospetto crescente agli Istituti Confucio – che sono sorti in ogni parte del mondo – e a molte altre iniziative culturali. L'ultima in ordine di tempo, i video "promozionali" sulla Cina proiettati a Time Square in occasione della visita di Hu negli Stati Uniti (questo articolo).
Va detto poi che intorno alle politiche linguistiche mirate ad aumentare il soft power fuori e dentro il Paese, il governo ha riversato fiumi di yuan, attirandosi molte critiche. La Legge sulla lingua prevede infatti che lo Stato ricompensi "le organizzazioni e gli individui che abbiano contribuito in maniera significativa nell'ambito della lingua cinese standard scritta e parlata" (Cap. I, art. 7). E non è un caso che dopo il primo Istituto Confucio aperto nel 2004, nel 2010 la cifra ha superato quota 500 con una spesa che si aggira tra i 100mila e 200mila dollari per singolo istituto.
E sulla figura di Confucio sembra che Pechino stia puntando il tutto per tutto. Risale a pochi giorni fa la grandiosa cerimonia con cui una statua del filosofo, molto più rassicurante del sorriso di Mao, è stata posta al centro di piazza di Tian'anmen, tra il ritratto del Grande Timoniere e l'obelisco agli Eroi del popolo. Come hanno sottolineato molti osservatori, il gesto è altamente simbolico considerato che, dopo il 1949, Confucio ha incarnato tutto ciò che andava distrutto. Se da una parte la mossa sembra voler recuperare il meglio della Cina antica, dall'altra evidenzia una volta di più la volontà di raggiungere un'egemonia (specifica di chi nel) Paese che sia anche culturale e che passa soprattutto attraverso la diffusione capillare del Putonghua.
Ma c'è chi si oppone
Dalla fondazione della Repubblica Popolare, il Partito ha cercato di diffondere una lingua comune e costruire un'identità nazionale che facesse da collante tra le 56 etnie del Paese. In Cina si parlano attualmente 80 dialetti diversi, 30 dei quali con una consolidata tradizione scritta. Ma se all'inizio il processo di scolarizzazione al cinese standard è stato tranquillo, si è trasformato negli anni fino a essere "militarizzato" durante gli anni della Rivoluzione culturale (1966-1976). Solo nel 1984, con l'Atto per l'autonomia regionale per le minoranze etniche, i gruppi non-Han hanno riacquistato il diritto di parlare la propria lingua, previa autorizzazione degli organi centrali. Se per alcuni gruppi, questa "egemonia linguistica" ha preso piede senza colpo ferire, in etnie con un'identità culturale più forte questo non è avvenuto, come nel caso dei tibetani.
E nonostante l'ascesa pacifica propugnata da Hu, gli Istituti Confucio e i rassicuranti spot sulla Cina, gli aspetti più delicati della questione sono, una volta di più, tutti domestici. Solo pochi mesi fa, Qiang Wei – segretario di partito per la provincia del Qinghai – aveva fatto capire di voler imporre l'uso del Putonghua a partire dalle scuole elementari, scatenando le proteste di giovanissimi studenti (questo articolo). Dalle prefetture autonome del Qinghai, il malcontento era poi arrivato tra i banchi dell'Università etnica di Pechino, dove 400 studenti tibetani avevano manifestato il proprio dissenso. Le proteste, messe a tacere con rassicurazioni da parte di altri funzionari del governo circa il mantenimento delle lingue locali a scuola, sono ancora vive nella memoria dei tibetani, che continuano a opporsi alla politica linguistica di Pechino soprattutto attraverso organizzazioni come Free Tibet.
Ma nel discorso di Liu Yandong, nessun riferimento alle lingue delle minoranze etniche, solo un'esaltazione della lingua come strumento per "sostenere la sovranità e la dignità del Paese" e come mezzo per "salvaguardare l'unione tra le etnie e l'unità nazionale". La diffusione del Putonghua per "incrementare il soft power del Paese nel mondo", anche se al momento l'esercizio di questo potere sembra avere più presa all'estero che tra i cinesi stessi.
di Miriam Castorina
©Riproduzione riservata