Shanghai, 15 dic. - Il Libro Blu sulla Responsabilità Sociale d'Impresa, pubblicato dall'Accademia Cinese delle Scienze Sociali (CASS) all'inizio di novembre, ha prodotto risultati scoraggianti.
Analizzando e valutando quattro dimensioni considerate fondamentali quali: la presenza di sistemi per la lotta alla corruzione, il livello dei controlli di qualità e delle pratiche e politiche di responsabilità esistenti in campo sociale e ambientale nelle 300 aziende più grandi del paese, lo studio ha fatto suonare un campanello d'allarme.
Divisi in tre gruppi - tra State owned enterprises, aziende private e imprese straniere – gli attori economici sono stati valutati prendendo come punto di riferimento standard internazionali e framework come quello proposto dall'Harvard Kennedy School. Risultato: sia il settore privato sia quello pubblico registrano forti ritardi nell'implementazione di politiche sostenibili nel loro complesso e un grado di trasparenza sotto la media.
Se si presta maggiore attenzione ai risultati di questa analisi, ad apparire quantomeno sorprendente è che tra le 26 aziende che hanno registrato il peggior punteggio - pari a zero o meno di zero nelle quattro dimensioni sopraindicate - ben 19 risulterebbero essere straniere. Qualche nome: Daimler Chrysler, Coca-Cola, Adidas.
Insomma non proprio gli ultimi arrivati e comunque brand con politiche e sistemi di gestione della responsabilità sociale di lungo corso e globalmente riconosciuti. A gettare luce sulla bizzarria dei risultati resi noti è la scarsa scientificità dei criteri di rilevazione e dei metodi di misurazione utilizzati per compilare lo studio, riscontrata da molti addetti ai lavori sia stranieri sia cinesi, che li hanno definiti:"talmente discutibili da banalizzare complesse analisi quantitative".
Detto questo, il messaggio implicito nel Libro Blu appare chiaro: la percezione esistente a livello cinese, circa l'operato in senso"responsabile" delle aziende straniere non è sufficientemente alta. Argomento, che non suona certo nuovo alle orecchie dei manager di molte multinazionali straniere che in più occasioni (e il ricordo torna al terremoto del Sichuan individuabile come il grande spartiacque in tal senso), sono diventate destinatari di rivendicazioni a fare di più per la Cina.
Come muoversi quindi?
Nel caso di imprese multinazionali gli sforzi vengono generalmente incanalati in progetti afferenti ai dipartimenti e alle unità che si occupano di responsabilità sociale o si esplicano nella creazione di fondazioni filantropiche destinate a vari scopi. Questa, come discusso nella precedente parte del Dossier, sembra ad oggi essere la via imboccata da numerose grandi aziende cinesi.
La possibilità di dar vita a fondazioni sembra però essere terreno impervio per le aziende straniere, frenate da un sistema regolatorio paradossalmente più severo e retto da procedure più complesse rispetto a quelle che disciplinano la registrazione di attività economiche.
Il primo ostacolo per un'azienda che voglia creare una fondazione in Cina sta infatti nella necessità di individuare e convincere un' unità amministrativa professionale (yewu zhuguan danwei) - il cui campo di intervento deve necessariamente rientrare nell'ambito di azione individuato dalla futura fondazione (ad esempio sanità o istruzione)- a fornire l'appoggio e la sponsorizzazione fondamentali a ottenere l'approvazione governativa. Questa, apre le porte alla registrazione ufficiale rilasciata dal Ministero degli Affari Civili, notoriamente tra i più conservatori della galassia politica cinese.
Di questi tempi non appare però così facile trovare un ente disposto a spendersi, perorando la causa di uno straniero. Si tratta infatti di sforzi che non vengono vissuti come remunerativi per l'ente stesso e anzi a volte sono avvertiti come controproducenti. In più l'esporsi pubblicamente non è visto di buon occhio in Cina, mentre quello che viene richiesto come supporto all'unità amministrativa, è proprio il delicato ruolo di garante presso il ministero.
Ottenuta l'approvazione finale è la volta per la fondazione di aprire un ufficio di rappresentanza che, come entità straniera, è impossibilitato a intraprendere attività di raccolta fondi, fattore non trascurabile quando si parla di fondazioni filantropiche.
Tutto pare insomma scoraggiare anche i più intraprendenti. Il che spiega in parte il numero limitato di Fondazioni straniere - 14 a giugno 2010- che risultano come ufficialmente registrate sul suolo cinese. Tra esse, giganti come la Bill & Melinda Gates Foundation o il WWF, caratterizzati da guanxi ad altissimi livelli.
Per molti organismi non profit internazionali non rimane che la via della "clandestinità". Scegliendo di non registrarsi, molti decidono infatti di operare nell'ombra. Opzione, questa, che limita però fortemente il raggio di azione all'interno del quale è possibile operare.
Ma come spesso accade in Cina, un'alternativa per aggirare le restrizioni esistenti c'è. E consiste nell'appoggiarsi a una fondazione o a un' associazione caritativa cinese già attiva sul campo , stabilendo al proprio interno delle linee di intervento finanziate da un fondo speciale (zhuanxiang jijin). Rimangono invariate le procedure di approvazione, così come restano i controlli periodici delle autorità. All'ente ospitante spetta anche un management fee annuale, ma tempi e procedure si riducono decisamente rispetto alla creazione di una fondazione. Altro vantaggio di cui può vantare il fondo speciale, consiste nella possibilità di avere accesso alla raccolta fondi, opportunità limitata naturalmente all'interno del recinto, sia geografico (corrispondente al suo raggio d'azione) sia di controllo, dell'organismo ospitante e limitatamente a una specifica causa.
In questo scenario non resta che rimanere in attesa di una riforma della filantropia in Cina, auspicata a gran voce da più parti e più volte annunciata come imminente, ma che sembra trovare ostacoli politici e burocratici alla sua definitiva realizzazione.
di Nicoletta Ferro
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