Il miraggio di un mondo senza più Armageddon
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Il miraggio di un mondo senza più Armageddon

Il miraggio di un mondo senza più Armageddon

Regole e trattati. Le divergenze tra le quattro potenze legali e «di fatto»
di lettura
di Ugo Tramballi

«La nuclearizzazione del mondo è diventata una condizione umana e non può essere modificata». Leggere di William Langewiesche il Bazar atomico (Adelphi, 2007), è come decidere di perdere ogni speranza riguardo alla minaccia nucleare. Abdul Qadeer Khan, il costruttore della bomba pakistana trasformato da Langewiesche nell'epitome della proliferazione nucleare dei poveri, aveva fatto dell'atomica un affare privato: vendendo quello che sapeva a coreani e iraniani, provandoci con Gheddafi e con altri Paesi affamati di potenza. «In 10 anni ha fatto più danni di quanto sia stato capace ogni altro Paese negli altri 50 dell'età nucleare», sostiene Kahn James Welsh, professore ad Harvard.
Eppure Barack Obama ci prova. Lo diceva in campagna elettorale quando la nomination era ancora lontana: «Un nuovo indirizzo nella nostra politica nucleare». Lo ha ripetuto a Praga nella prima uscita in Europa, il vecchio campo di battaglia della Guerra Fredda: «Un mondo senza armi nucleari». Appena ha potuto, a Mosca, ha compiuto il primo atto concreto di riduzione delle armi strategiche: limitato ma significativo avendo rimesso in moto il disarmo. Ha cancellato il costoso e inutile progetto dello scudo spaziale; e all'Onu, la settimana scorsa, ha rilanciato la grande suggestione di un mondo liberato dall'armageddon atomico. Perché tutto questo se l'umanità, America compresa, pensa che la bomba sia parte così immodificabile della sua natura? Perché, se nonostante le parole e le opere di Barack Obama l'Iran teneva nascosto quello che oggi chiama un «impianto pilota» alle porte di Qom, ribadendo che il vizio della bomba è così ostinato?
«L'intenzione era terrorizzare una nazione nella massima misura: e per raggiungere questo effetto non c'è nulla come bombardare civili» (nuking, nel testo originale). In tutta la sua vita il colonnello Paul Tibbets non si è mai pentito. Volando a 31mila piedi sopra Hiroshima, aveva sganciato Little Boy, pensando che se non ci fosse stato lui ai comandi di Enola Gay, qualcun altro avrebbe aperto i portelli del suo B-29 e iniziato l'era nucleare. Più di 60 anni dopo, nuking civilians è un'eventualità che ha sempre il suo peso nelle relazioni internazionali. Avere una bomba o raggiungere la capacità tecnologica di farla, e poi fermarsi all'arricchimento dell'uranio per non incorrere nelle sanzioni internazionali, è una tentazione irresistibile. Soprattutto per quei Paesi emergenti che abbiano avuto una storia imperiale, vivano in condizioni geopolitiche precarie o siano inorgogliti da una crescita economica. Dei nove Stati che non hanno ancora ratificato il trattato sul bando dei test nucleari (CTBT), eccetto l'America gli altri otto possiedono una o tutte quelle caratteristiche: Cina, Corea del Nord, Indonesia, India, Pakistan, Iran, Egitto, Israele.
Il mondo è stato in condizioni peggiori di questo bazar atomico apparentemente anarchico. Dal 1945 al 2006 le cinque potenze nucleari "legali" (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) e le quattro di contrabbando (Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) hanno costruito 128mila testate nucleari. Il calcolo è uno dei più ipotetici della scienza e della politica: gli arsenali sono segreti. «Nonostante le incertezze sappiamo che oggi l'insieme globale delle armi nucleari è considerevolmente inferiore al picco della Guerra Fredda: oltre 70mila del 1968», sostiene uno studio del Bulletin of the Atomic Scientists. Si calcola che nel 2009 le testate operative o stoccate negli arsenali siano 27mila, il 97% delle quali americane e russe. Anche per questo il logo del sito degli scienziati sostenitori del disarmo, è un orologio che segna «cinque minuti a mezzanotte»: il mondo resta sempre a un passo dalla fine nucleare.
A parte la Cina, le altre potenze ufficiali da anni tendono a una riduzione degli arsenali: chi con più, chi con minore entusiasmo. Dal massimo di 32mila testate nel 1967, a gennaio di quest'anno gli Stati Uniti ne avevano circa 9.400. Di queste 4.200 erano in attesa di essere smantellate. La Russia ne possiede 13mila. La Cina, con «il più attivo programma di missili balistici nel mondo», secondo il Pentagono, ne ha 240 (176 dispiegate). La Gran Bretagna «meno di 200 testate operativamente disponibili», come dice il Governo; la Francia 300 (240 attive).
Poi ci sono i furbi. I Paesi nucleari che non hanno mai aderito al Trattato sulla non proliferazione (Npt): India e Pakistan, insieme circa 110 testate; e Israele, forse 200. La Corea del Nord ha costruito le sue bombe, fra 5 e 15, servendosi dell'Npt. Il trattato stabilisce che arricchire uranio per uso civile è «diritto inalienabile» di ogni Paese. Le cinque nazioni legalmente atomiche, hanno il dovere di trasmettere le loro conoscenze per la produzione di energia nucleare a scopi civili a chiunque lo chieda. I coreani del Nord prima hanno aderito al trattato, poi hanno incominciato a violarlo; con gli ulteriori aiuti che le potenze nucleari passavano loro per convincerli al rispetto della legge, passo dopo passo i coreani hanno costruito la loro bomba, decidendo alla fine di uscire dal trattato. Il mondo sospetta che gli iraniani stiano seguendo la stessa strada.
La domanda è ancora più pressante. Perché Barack Obama vuole disarmare? Intanto perché la scienza permette di farlo senza perdere il potere nucleare. Nel 1945 Little Boy scatenò su Hiroshima una potenza di 15 kilotoni; W88, l'ultima delle 100 qualità di bomba create in 60 anni dagli scienziati americani, ne vale 455 di kilotoni. Evidentemente l'economia conta: mantenere 32mila testate costa più che tenerne attive 5.200, delle quali 2.700 operative.
C'è anche una questione politica e morale. Invocare e praticare il disarmo è l'unico modo per legittimare il potere nucleare. Obama sa che ridurre di un terzo le attuali 2.200 testate strategiche (montate cioè su missili balistici intercontinentali) non convincerà coreani e iraniani a fermarsi. Ma «siamo convinti che se seguiamo il cammino della riduzione, probabilmente molte più nazioni ci seguiranno nel nostro approccio per prevenire la proliferazione», scrivono i più autorevoli "abolizionisti" americani: Sam Nunn, Henry Kissinger, George Shultz e William Perry, senatori, segretari di Stato e alla Difesa di amministrazioni democratiche e repubblicane.
Il problema è il Trattato sulla non proliferazione, l'architrave del disarmo. Nel 2005 l'assemblea generale dell'Onu non è riuscita ad approvare la revisione quinquennale prevista dall'Npt: il mondo dunque è tecnicamente senza regole e lo resterà fino alla fine dell'anno prossimo, quando è prevista una nuova revisione. Se non ha più regole è perché moralmente e politicamente l'assunto del trattato non regge più: il diritto delle cinque potenze di restare nucleari in cambio dell'offerta agli altri del loro know how civile e della vaga promessa di disarmare. George Bush aveva di nuovo posto l'arma nucleare al centro della dottrina difensiva americana, diventando poco credibile quando andava a dire a coreani e iraniani di non armarsi. Barack Obama ha capito che quel dovere al disarmo non può essere solo una dichiarazione ma una pratica reale. Ridurre effettivamente gli arsenali fino a quel «mondo senza armi nucleari». È una prospettiva graduale e lontana ma è l'unica barriera fra un mondo nucleare con delle regole e il bazar.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

26/09/2009
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