IL DRAGONE VUOLE L'ELEFANTE

Uno schiaffo e una carezza è la natura del rapporto tra Cina e India. Dopo le accuse di protezionismo mosse senza mezzi termini qualche giorno fa all'India, ora la stampa cinese parla di dialogo amichevole. La virata, a conclusione dell'incontro a Nuova Delhi tra la delegazione cinese del segretario del Consiglio di Stato Dai Bingguo e quella indiana rappresentata dal consigliere per la Sicurezza Mayankote Kelath Narayanan. Al centro del dialogo, le rivendicazioni dei confini. O almeno teoricamente, visto che i leader hanno parlato di tutto – scambi commerciali e culturali, crisi finanziaria e ambiente - tranne che di una soluzione concreta alla delicata questione irrisolta dai tempi della colonizzazione inglese. La linea di confine Mac Mahon, tracciata nel 1914 dalla Gran Bretagna, non è mai stata riconosciuta dai successivi governi cinesi anche dopo la sanguinosa guerra combattuta nel 1962 contro l'India fra le alture dell'Himalaya. La Cina rivendica circa 90 mila chilometri quadrati di territorio, compresa buona parte dell'Arunachal Pradesh (Tibet meridionale). A sua volta l'India rivuole indietro circa 43.180 chilometri quadrati nella regione Aksai Chin, al confine con il Kashmir, compresi i 5.180 chilometri quadrati ceduti dal Pakistan nel 1963. Secondo fonti del quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, la delegazione cinese ha chiesto la restituzione della città monastero di Tawang nell'Arunachal Pradesh, occupata nel 1962 dal PLA (esercito popolare di liberazione cinese) e poi ritornata all'India. È una zona strategica - sito importante del buddismo tibetano e luogo di nascita del sesto Dalai Lama – che gli indiani hanno categoricamente rifiutato di cedere appellandosi agli accordi del 2005 che vietano di richiedere aree popolate. E sono proprio i parametri del 2005, che soltanto i negoziatori però conoscono, il solo punto fermo raggiunto dopo tredici incontri dalla visita ufficiale in Cina – la prima di un premier indiano in un decennio - dell'allora primo ministro indiano Atal Behari Vajpayee. Al contrario, negli anni c'è stato un crescendo di tensioni. E anche per quanto riguarda gli ultimi celebrati colloqui, il ministro degli Esteri indiano Somanahalli Mallaiah Krishna ha pubblicamente escluso che si siano fatti passi in avanti. Servono tempo e pazienza, spiega Zhang Yan, ambasciatore cinese in India: ''I crescenti legami economici tra i due grandi vicini (il volume di scambio è passato da 2 miliardi di dollari nel 1999 a sfiorare i 60 miliardi) devono indurre a trattare i problemi con razionalità e con prudenza, questioni storiche comprese''. Difficile per chi ipotizza - come Brahan Chellaney, professore di Studi strategici al Centro di ricerche politiche a Nuova Delhi - che la Cina abbia l'unico obiettivo di impegnare l'India in colloqui senza esito, mentre intanto può cambiare a proprio favore i rapporti di forze sviluppando strutture militari nella zona himalayana. Nuova Delhi accusa infatti Pechino di avere creato forti strutture militari nelle regioni di confine e ha espresso preoccupazione per il progetto cinese di portare il treno espresso dalle province del Qinghai e del Tibet fino alle prefetture di Xigaze e Nyingchi; ma negli ultimi mesi l'India ha schierato a sua volta nuove truppe. Dalle questioni di confine il discorso si allarga così agli interessi economici e politici. Innanzitutto per il controllo delle risorse idriche, su cui si basano l'agricoltura e l'industria di entrambi i Paesi, che sta diventando sempre più una posta in gioco primaria. La carenza d'acqua costringerebbe Cina e India a importare risorse alimentari, sconvolgendone gli assetti economici. Ne consegue una battaglia per il controllo delle risorse idriche. Anche se l'India ha più terra arabile della Cina – rispettivamente 160,5 milioni e 137,1 milioni di ettari - il Tibet è la sorgente della maggior parte dei fiumi indiani, oltre ad avere fra i maggiori depositi al mondo d'acqua e ghiacciai. Nonostante i continui richiami del governo indiano alla trasparenza, la Cina sta portando avanti imponenti progetti di controllo delle acque e deviazione del flusso naturale dei fiumi tibetani verso il nord. A sua volta la Cina guarda con sospetto a un progetto indiano di controllo delle alluvioni nell'area di confine finanziato dai fondi della Asian development bank e sostenuto dagli Stati Uniti e dal Giappone. Avvicinamenti che Pechino teme molto, ed entrano qui in gioco i movimenti sullo scacchiere della politica internazionale, come spiega Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano. ''La questione è annosa. Giganti dell'Asia, Cina e India sono interessate a mantenere relazioni armoniose ma sono entrambe potenze egemoniche. Se l'India guarda con sospetto all'amicizia della Cina con il Pakistan - pur nell'interesse condiviso di stabilità - la Cina non vede di buon occhio la partnership (e i conseguenti recenti accordi nucleari civili) degli Stati Uniti con l'India, di fatto 'arruolata' dagli Usa come sacca di contenimento del potere cinese. Ma chi rischia di rimanere con il cerino in mano è proprio l'India in prospettiva di un G2 Usa-Cina. Penso dunque che il vero obiettivo di questi incontri interlocutori sia, da parte di entrambi i Paesi, capire le intenzioni di Washington. Che implicazioni avrà per la Cina e per l'Asia il nuovo corso di Barack Obama? L'India ha scommesso negli ultimi anni sugli Stati Uniti, ma se gli Usa dovessero cambiare rotta?''.
Marzia De Giuli