IAN BREMMER: "NON VEDO NESSUN G2"

IAN BREMMER: "NON VEDO NESSUN G2"

di Eugenio Buzzetti

 

Pechino, 17 feb.  - La visita di Xi Jinping negli Stati Uniti che si conclude oggi riapre uno dei dibattiti che ha maggiormente tenuto banco tra politologi, esperti e analisti negli ultimi anni. Si può ancora parlare di G2? E' possibile che nonostante gli attriti degli scorsi anni (vedi i casi delle armi americane vendute a Taiwan, la protesta di Google contro la censura cinese, e le guerre valutarie contro uno yuan che secondo Washington il governo di Pechino mantiene artificialmente sottovalutato) tra Cina e Usa, i due Paesi possano trovare nuovi terreni su cui riprendere un dialogo? La risposta per il politologo americano Ian Bremmer è un no netto. Presidente e fondatore di Eurasia Group, agenzia di consulenza e ricerca leader nel campo del political risk, Bremmer è autore del saggio "The end of the free market: who wins the war between States and corporations" (Portfolio, 2010) in cui traccia una distinzione netta tra le economie occidentali tradizionali, fondate sul concetto di libero mercato, e i Paesi come la Cina, dove a prevalere è un sistema nel quale gli Stati dominano i mercati per ragioni soprattutto politiche.


"La più grande sfida per l'economia mondiale - spiega Bremmer in una conferenza alla Cheung Kong Graduate School of Business di Pechino - è il passaggio da un'economia in cui i principali attori sono le economie libere e le corporation multinazionali, a un modello molto differente con cui siamo in competizione, quello in cui le corporation sono ostaggio degli Stati". Il capitalismo di Stato, appunto, che proprio in Cina trova il suo massimo esempio, oggi. "Non fosse stato per la Cina - afferma Bremmer ad Agi China 24 - non avrei mai scritto il mio ultimo libro. Per le sue dimensioni e per la sua rilevanza, oggi la Cina è il caso più importante di capitalismo di Stato e -prosegue l'analista- è sicuramente un modello per tutti quegli Stati che hanno risorse straordinarie da estrarre da se stessi, come la Russia. Per la Cina, è chiaro, questa risorsa è la forza lavoro a costi bassissimi".

 

Difficile, allora, su queste basi, prevedere un ritorno del G2 nel prossimo futuro, se non addirittura impossibile anche nel medio periodo. "Il deterioramento nei rapporti tra Usa e Cina -afferma Bremmer- passa attraverso posizioni inconciliabili tra i due Paesi su temi come il clima e la crescita economica. Il punto è se si può trovare un accordo su questioni di interesse commerciale e regionale, ma è prevedibile che il capitalismo di Stato cinese, come già successo in passato, porterà a nuovi attriti tra i due Paesi all'interno del WTO". Sotto osservazione, ovviamente, anche la visita di Stato di Xi Jinping, candidato a succedere a Hu Jintao alla guida della Cina. "La visita di Stato del vice presidente cinese -commenta l'analista- è volta a portare investimenti cinesi negli Usa. Il governo americano vuole investimenti cinesi. Ma anche i cinesi vogliono investire negli Stati Uniti". Drastico il giudizio sull'uso del termine 'win-win situation' adoperato spesso dai politici di Pechino: "Dovrebbero smettere di usarlo - dichiara - Non ci crede più nessuno: né loro, né gli investitori".

 

Se lo sguardo di Bremmer è critico verso il capitalismo di Stato come modello che si contrappone al libero mercato, l'analista non risparmia critiche al modello di sviluppo occidentale dominato dalle multinazionali. "Credo che se voi andaste a chiedere al CEO di una multinazionale cosa voglia davvero e questi fosse disposto a rispondervi onestamente, vi direbbe che quello che vuole non è il libero mercato, ma la massimizzazione dei profitti, dei compensi, magari a breve termine. Vi dirà che vuole il monopolio, i sussidi governativi, non il libero mercato". Non esiste, però, una terza via, per Bremmer: l'unica possibilità resta quella di un'economia aperta. "Se non vuoi corporazioni ostaggio degli Stati, allo stesso modo non vuoi che le agende delle corporazioni diventino quelle degli Stati e l'unica via percorribile è quella del libero mercato attraverso la regolamentazione delle multinazionali". Un modello dal quale, per motivi diversi, Cina e Stati Uniti sono ancora lontani. "Il capitalismo di Stato cinese non è un modello da cui la Cina si muoverà presto. Ci potranno essere riforme nel breve e medio periodo, ma non si tratterà di interventi strutturali capaci di cambiare l'assetto dello Stato. Nel 2012 non prevedo cambiamenti significativi, in primo luogo per via del Congresso del Partito, ma anche per la situazione di crisi che stanno attraversando alcuni partner commerciali importanti come i Paesi dell'Eurozona".


In chiusura, il presidente di Eurasia Group lascia però aperta per la Cina la possibilità di cambiamenti all'assetto statale: "La volatilità dei risultati economici della Cina -prevede l'analista- sarà sicuramente uno dei fattori d'instabilità del Paese. E sul lungo periodo sarà più alto di quello degli altri Paesi occidentali, Usa ed Eurozona. Il governo sa di dovere affrontare in futuro serie riforme strutturali, ma questo non significa che lo farà in tempi brevi".  Una tesi, quest'ultima, che sul piano politico non viene però condivisa da tutti gli osservatori e che trova fieri avversari come Eric X. Li, fondatore e managing director di Chengwei Capital, investment firm di Shanghai, che in un editoriale comparso giovedì sul New York Times dal titolo "Perché il modello politico cinese è superiore" spiega come la democrazia americana sia un modello arroccato su se stesso come lo era l'Unione Sovietica degli ultimi tempi, mentre il dinamismo interno al Pcc possa essere una risorsa per il Paese. "L'Occidente, oggi -afferma il venture capitalist di Shanghai- vede la democrazia e i diritti umani come una vetta dello sviluppo umano. E' un credo fondato su una fede assoluta. La Cina -continua Eric X. Li- è su un sentiero diverso. I suoi leader sono pronti a favorire una grande partecipazione popolare alle decisioni politiche se questo può condurre allo sviluppo economico nell'interesse nazionale, come è successo negli ultimi dieci anni. I leader cinesi, comunque -conclude Li- non esiteranno a limitare queste libertà se le condizioni e i bisogni del Paese saranno mutati". Un altro tassello che rende l'ipotesi di un ritorno del G2 ancora più complicata.

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