I tassi più alti non spingono lo yuan
ADV
ADV
I tassi più alti non spingono lo yuan

I tassi più alti non spingono lo yuan

Verso il G-20 - LE MOSSE DEL DRAGONE
di lettura
SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
Il costo del denaro sale. Lo yuan si apprezza. Le riserve valutarie volano ai massimi di tutti i tempi. I timonieri della politica monetaria cinese non hanno mai avuto da fare come nelle ultime settimane. Anche perché ai grattacapi domestici, si aggiungono quelli globali: la guerra valutaria, il rischio deflazione, lo spettro di una bolla speculativa nei paesi emergenti.
In questi giorni convulsi, a Pechino chi decide sui destini della moneta della superpotenza asiatica? La People's Bank of China, naturalmente. Ma la potente banca centrale cinese, sebbene goda di un grado d'indipendenza senza uguali tra i tanti organismi statali del Dragone, non può sottrarsi a un quotidiano confronto "dialettico" con gli altri pezzi dell'apparato di potere cinese.
A giudicare dalle dichiarazioni pubbliche un fatto è certo: se la Pboc avesse potuto decidere in piena e completa autonomia, lo sganciamento dello yuan dal peg con il dollaro sarebbe avvenuto ben prima del giugno scorso. E l'aumento dei tassi d'interesse sarebbe arrivato già quest'estate.
Già all'inizio del 2010, infatti, di fronte a una ripresa economica cinese tornata sostenuta e sostenibile, il Governatore della banca centrale, Zhou Xiaochuan, avrebbe voluto riportare il renminbi al sistema di cambio in vigore prima dello scoppio della crisi finanziaria internazionale. E da mesi, visto che la Cina si era brillantemente lasciata alle spalle la crisi, sarebbe stato propenso ad aumentare il costo del denaro per contrastare il surriscaldamento dell'economia, l'eccesso di investimenti, l'inflazione e la bolla immobiliare.
Ma, puntualmente, Zhou Xiaochuan ha trovato sulla sua strada il potente ministro del Commercio, Chen Deming. Uomo di vecchia scuola legato all'ala conservatrice del Partito per la quale l'equazione "crescita economica-stabilità sociale" è un dogma assoluto, nei mesi scorsi Chen si è opposto strenuamente a qualsiasi ipotesi di irrigidimento della politica monetaria ultra-espansiva varata da Pechino nell'autunno 2008.
Non è un caso che il tanto atteso sganciamento dello yuan del dollaro sia stato deciso nel giugno scorso, quando le esportazioni del made in China già da tempo erano ritornate a crescere a ritmo sostenuto. E non è un caso che per aumentare il costo del denaro giusto di un quartino di punto si è dovuti arrivare fino a metà ottobre. Probabilmente, nel terzo trimestre l'economia cinese è andata talmente bene (lo sapremo oggi) da convincere Chen e i falchi anti-monetaristi ad accettare il ritocco dei tassi d'interesse.
Un ritocco che ieri ha avuto una prima conseguenza del tutto inattesa e quasi paradossale: anziché rivalutarsi, lo yuan ha perso terreno. Ma, visto com'è strutturato il sistema di cambio cinese, è una cosa del tutto normale. Lo yuan, infatti, è una moneta inconvertibile e il suo valore quotidiano viene determinato esclusivamente dalla Pboc tramite un tasso di riferimento e una banda di oscillazione. Quindi, ieri è bastato che la banca centrale fissasse la parità centrale dello yuan su un valore sensibilmente più basso rispetto alle quotazioni degli ultimi giorni (6,6754 contro dollaro) per fare scivolare il renminbi a 6,652 sulla moneta americana (6,6447 la chiusura di martedì).
Almeno su due punti, dunque, falchi e colombe della politica monetaria cinese sono in perfetta sintonia: gli afflussi speculativi di hot money vanno tenuti sotto stretto controllo; e per combattere l'inflazione e le bolle speculative si agisce o sul tasso di cambio o sui tassi d'interesse.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

ADV
ADV




21/10/2010
ADV