Hu Jintao lascia l'Italia e il G8 de L'Aquila, al quale avrebbe dovuto partecipare oggi, per correre in Cina a seguire da vicino la crisi nello Xinjiang. La notizia è stata confermata ieri notte, mentre l'agenzia di stampa di stato Xinhua ha pubblicato oggi un laconico commento intitolato "Il presidente cinese ritorna dall'Italia": ambu jian wang, "tutto secondo la prassi", dicono i cinesi. Ma quanto peserà l'assenza di Hu Jintao? La crisi è così grave da spingerlo ad abbandonare il vertice dei Grandi? Chi è il diplomatico che lo sostituirà? Lo Xinjiang, "nuovi territori" è l'estrema provincia occidentale della Cina, al confine con Pakistan, Afghanistan e tutti gli altri enigmatici 'stan' dell'area. Si tratta di una zona strategica oggi come più di cento anni fa: allora, perché al centro del "Grande Gioco" tra Russia e Gran Bretagna che si snodava attraverso tutta l'Asia Centrale; oggi, perché le sue riserve di petrolio, gas, carbone, uranio e oro sono le più ingenti di tutta la Cina. Questo "Far West" in salsa di soia è anche da sempre il teatro di tensioni tra gli uiguri, la minoranza turcofona di fede islamica, e i cinesi di etnia Han- quella predominante nel paese- che hanno cominciato a installarsi nella zona dagli anni Cinquanta sotto il "Corpo per la produzione e la costruzione", una serie di sussidi concessi a chi decideva di trasferirsi in una delle province più dure della nazione. Molti degli Han che vivono nello Xinjiang si sentono quasi investiti di una "missione civilizzatrice" e secondo lo studioso di geopolitica Parag Khanna "la war on terror statunitense è stata quasi una benedizione mascherata per le autorità di Pechino, che hanno subito etichettato come fondamentalisti islamici gli agitatori uiguri". Il bilancio ufficiale degli scontri etnici scoppiati domenica scorsa è di 156 morti e più di un migliaio di feriti, ma secondo la dissidente uigura Rebiya Kadeer le vittime sarebbero addirittura 400: in entrambi i casi si tratta del peggiore massacro di cui si abbia notizia in Cina dai tempi di Piazza Tien an Men. Secondo molti osservatori, però, il rientro anticipato di Hu non è solo dettato dalla necessità di fronteggiare la crisi, ma è anche un segnale forte per dimostrare che il presidente rimane vicino al popolo. Subito dopo lo scoppio delle violenze era impossibile trovare un cinese che non invocasse il ritorno immediato di Hu. Per i cittadini e i media cinesi, insomma, è normale che il presidente abbandoni il G8, così come è normale che il suo posto al vertice venga preso da Dai Bingguo, la massima carica di governo nella gestione degli affari internazionali. 68 anni, nato nella provincia meridionale del Guizhou e appartenente alla minoranza etnica Tuijia, è un diplomatico di lungo corso che gode della stima di vecchie volpi come Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski. Molti giornali cinesi per descrivere la sua carriera parlano di un "grande talento maturato lentamente": dopo esperienze nel comitato negoziale Cina-URSS e in Ungheria come ambasciatore, Dai è ministro degli Esteri dal 2003 al 2008 e si guadagna fama di risolutore in controversie complesse, come quella della Corea del Nord. Oggi è uno dei consiglieri di Stato e ricopre la carica di direttore del Dipartimento Internazionale del Comitato Centrale, uno dei maggiori centri di potere del partito comunista, secondo l'antica sovrapposizione tra cariche di governo e di partito. La partecipazione della Cina al G8 dopo la partenza di Hu è quindi sminuita? Tenuto conto delle pressioni dell'opinione pubblica cinese e della caratura di Dai Bingguo, è probabile che l'unico cambiamento sarà l'assenza del presidente cinese nelle foto di rito.