Pechino, 11 nov. – "Siamo pronti a collaborare" hanno detto i due all'inizio dell'incontro. Non importa quanti capi di Stato sfileranno al vertice G20 di Seoul, che si annuncia tra i più aspri da quando questo organismo è venuto alla ribalta sull'onda della grande crisi economica del 2008; i riflettori sono tutti puntati sul faccia a faccia tra il presidente cinese Hu Jintao e quello americano Barack Obama. Ma Le posizioni espresse da Hu nelle ore immediatamente precedenti al summit rappresentano una sintesi delle dichiarazioni rilasciate dalla leadership cinese in questi ultimi mesi, mentre il confronto tra le due sponde del Pacifico sui temi economici e monetari si faceva sempre più serrato: "Tutte le nazioni dovrebbero sopportare con coraggio la responsabilità di affrontare i propri problemi, aderire alla cooperazione internazionale, e valutare le differenze in modo appropriato – ha dichiarato ieri Hu Jintao in un'intervista all'agenzia di Stato Xinhua -la Cina proverà a gestire i propri affari, e non accuserà gli altri paesi per i suoi problemi interni". Il messaggio è chiaro: uno dei nodi di questo summit G20 consiste negli squilibri inferti alla ripresa mondiale dall'ascesa cinese, contrapposta al deficit statunitense.
Pechino è stata per mesi al centro delle polemiche di Washington; lo yuan, la moneta cinese, era stata vincolata al dollaro nel luglio 2008, quando la crisi dei mutui subprime iniziava ad emergere in tutta la sua gravità. Nel giugno di quest'anno il Dragone ha acconsentito a un lieve apprezzamento, che ha lasciato insoddisfatti gli americani: secondo il Congresso americano la Cina manipola artificialmente la sua valuta, fissa un tasso di cambio tra il 20% e il 30% inferiore al valore reale della moneta, e così facendo ottiene un vantaggio sleale nei commerci con l'estero, contribuendo a gonfiare a dismisura il deficit americano. Le pressioni esercitate dall'Aquila americana per spingere il Dragone a rivalutare lo yuan-renminbi si sono infrante contro l'irremovibilità cinese – "Un apprezzamento repentino provocherebbe disoccupazione, instabilità sociale e afflusso di capitali speculativi capaci di distorcere la nostra crescita economica" ha ripetuto ovunque il premier cinese Wen Jiabao-, e nelle ultime settimane Pechino ha anche avuto occasione di rispedire al mittente le accuse, e con gli interessi, se possibile. Per gli economisti, i funzionari e i columnist cinesi la manovra di alleggerimento quantitativo varata dalla Federal Reserve la scorsa settimana non è altro che una forma di manipolazione di valuta neanche troppo mascherata e, per dirla con il vice-ministro degli Esteri Cui Tiankui, "gli Stati Uniti ci devono qualche spiegazione".
"Ho visto molta preoccupazione per l'impatto che questa politica di stabilità finanziaria potrebbe avere su altri paesi- ha detto Cui durante una conferenza stampa preparatoria al G20- e dato che Washington emette la principale valuta di riserva del mondo, ci aspettiamo che adotti una posizione responsabile. Ovviamente la Federal Reserve ha il diritto di prendere le proprie decisioni senza consultare nessun altro, ma speriamo ugualmente che considerino gli effetti che i loro provvedimenti possono avere su altre economie". La mossa adottata da Ben Bernanke – che poco prima di lanciarla aveva detto chiaramente di essere pronto a usare "armi non convenzionali"- consiste in un quantitative easing da 600 miliardi di dollari spalmati fino al secondo trimestre 2011, ed equivale –di fatto- a stampare nuova moneta, con l'obiettivo di far ripartire una ripresa che in America stenta a decollare. Nell'attaccare la decisione in vista del G20, Pechino ha mostrato subito una certa destrezza, e si è fatta il paladino degli interessi delle economie emergenti: "La mossa rappresenta uno shock per i paesi in via di sviluppo – ha detto il viceministro delle Finanze Zhu Guangyao – gli Usa non si fanno carico delle loro responsabilità nella stabilizzazione dei mercati globali e non valutano l'impatto che la manovra avrà sulle economie emergenti in termini di afflusso di capitali speculativi"; "Il programma della Federal Reserve aggiunge rischi agli squilibri già presenti nell'economia globale, mette pressione sulle economie emergenti per forzarle a riequilibrare la loro bilancia dei pagamenti internazionali e potrebbe anche creare bolle speculative sulle quali dobbiamo vigilare" ha detto ancora il vicegovernatore della Banca centrale cinese Ma Delun.
Ai proclami, poi, il Dragone ha fatto seguire alcuni fatti: sul fronte interno, ha varato un giro di vite che intensifica i controlli sull'afflusso di capitali speculativi stranieri e sul rientro di capitali di società cinesi all'estero, in modo da non importare dagli USA inflazione; sul fronte internazionale, posizione che si riverbera su questo G20, ha rigettato le proposte della FED di fissare al 4% del PIL il tetto degli squilibri di surplus e deficit correnti. "Certamente, anche noi vogliamo bilance dei pagamenti più equilibrate- ha detto con una certa ironia il viceministro degli Esteri Cui Tiankui- ma fissare artificialmente un obiettivo numerico non può che ricordarci i tempi delle economie pianificate". Pechino, in definitiva, non accetta pressioni sul tasso di cambio della propria moneta, e per giustificare il suo continuo surplus commerciale verso gli Stati Uniti– che secondo i dati di ieri ad ottobre ha raggiunto il secondo record dell'anno (leggi questo articolo)- punta il dito contro il protezionismo degli USA, restii a concedere alla Cina la propria tecnologia e contrari all'ingresso di compagnie cinesi in America su settori strategici come le telecomunicazioni.
E anche il Dragone non si tira indietro davanti all'utilizzo di "armi non convenzionali": alla notizia del quantitative easing americano, l'agenzia di rating cinese Dagong non ha esitato ad abbassare la sua votazione sul debito sovrano statunitense da AA ad A+. Le manovre di entrambi, infine, hanno innescato una serie di svalutazioni competitive a catena: Giappone, Corea del Sud, Thailandia, India, Brasile e Svizzera sono tutte nazioni che negli ultimi mesi sono intervenute in maniera diretta o indiretta sulla propria moneta per abbassarne il valore e guadagnarsi una ripresa più veloce grazie all'export. E mentre l'Europa, per bocca del Cancelliere tedesco Angela Merkel, sostiene che il peso delle svalutazioni competitive non può essere sostenuto unicamente dall'euro, il G20 di Seoul è chiamato a disinnescare questo meccanismo in cui ogni paese canta con voce dissonante. Al di là del gioco delle parti che anima da tempo le relazioni tra Cina e USA, viste da Seoul le due sponde del Pacifico sembrano allontanarsi sempre più.
di Antonio Talia
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